sabato 3 novembre 2012

Oscenità, Narcisismo, Desiderio

di Pier Marco Turchetti


Ciò che tende al bianco va verso la trasparenza, induce alla nudità, fino ad imporre l’assolutezza dell’Oggetto e la sua estasi anonima. Il bianco non contiene nulla, non sa contenere, anzi, nient’altro che non sia autoreferenzialità di superficie. La sua caratteristica oscenità fa in modo che il distacco assuma il tenore di un’eleganza neutrale e che la vicinanza diventi un gioco di riflessi bloccati. La nostra interpretazione psico-sociologica è dunque ben lontano dal consegnarsi al bianco shakespearano che suscita vergogna e rigetto in Lady Macbeth: "My hands are of your color, but I shame/ To wear a heart so white". Ed è altrettanto distante dal rimando a quell'uguaglianza fittizia e perciò negata a Karol Karol, protagonista di Film Bianco di K. Kieslowski.

Dove “c’è” bianco sappiamo di una mancanza; dove “c’è” nero sentiamo una latenza. Ed è per questo che il nero è pieno di figure, carico di rimandi, ribollente di oggetti a venire, mentre il bianco è vuoto di figure, portatore di segni, essendo esso stesso Oggetto Assoluto come valore segnico di visività. Quale che sia la gradazione di bianco non possiamo attenderci altro se non un minimo di profondità superiore alla superficie, tale per cui sia possibile una interruzione significante della superficie. Come dire che ogni scrittura si pensa in bianco.

Nel suo romanzo-lipogramma La disparition, Georges Perec esplica alla lettera ed in maniera sistematica il senso di mancanza di fondo della scrittura come scrittura della superficie, i cui segni nerastri cercano di colmare lo spazio bianco dell’oggetto mancante, che è persona scomparsa ed insieme lettera mancante, la “e”. Questa sparizione può, senza dubbio, essere letta come un elogio divertito e ludico dei giochi di superficie significanti o, se si vuole, come una festa del segno, nella quale la profondità della ricerca fruttuosa (detective story) viene totalmente ridicolizzata. Perec, al testo Voyelles di Rimbaud, sostituisce pertanto un suo componimento deformato dal titolo Vocalisations, anch’esso privo della vocale “e”, in cui mostra come lo spazio bianco funga da vuota casella di gioco di una scacchiera. L’effetto provocato è, non soltanto, una risemantizzazione del sonetto di Rimbaud, ma una rimodulazione del simbolismo coloristico delle vocali. In Rimbaud si legge: “À noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu”; Perec rimodula in: “À noir (Un blanc), I roux, U safran, O azur”.

Volendo riprendere la metaforica di Blumenberg, la "differenza di fondo" tra fondo coltivabile e fondo edificabile, consisterebbe anche nella differenza tra una fedeltà alla profondità e un tradimento della profondità. L’edificare, difatti, comporta il nascondimento del fondo su cui si costruisce. Ci si dimentica del fondo, lo si tradisce, lo si imbianca. L’idea greca, legata a Phanes (colui che si manifesta rifulgendo), simbolo dell’espressione, per cui il mondo delle cose è il sogno di un dio, e, perciò, il velame di un’altra vita, deve contare sulla seduzione del nero, non certo sull’oscenità del bianco, per la quale “nulla sta nascosto nel profondo”; allo splendore di ciò che sta nascosto, tanto caro ad un Eraclito e a un Democrito, la scrittura del bianco non rimanda alla scrittura di un dio nascosto e salvifico ma luccica di per se stessa come Oggetto abbandonato tra gli oggetti.



Tutta la sovrabbondanza di vuoto senza fondo e di superfici riscrivibili, tali da inibire ogni ritorno al reale (anche nel senso di una terza fase del Post-Moderno mai avvenuta nè mai innescata) potrebbe ricondurci al mito di Narciso e a una sua nuova lettura. Che cosa resta di questo modello nel presente delle odierne relazioni umane? Che il mito di Narciso abbia bisogno di essere liberato dalla vulgata freudiana, o, anche dalla lettura di un articolo come Introduzione al narcisismo, al quale Freud ha consegnato in anticipo la sua seconda topica? Due annotazioni frammentarie del Canetti de La provincia dell’uomo ci introducono all’argomento:

“Mi voglio spezzare finché non sarò intero.”

“Se tu fossi solo ti divideresti in due, affinché una parte di te formasse l’altro”

Innanzitutto, due opposte inclinazioni: essere-intero , essere-l’altro. Essere-intero, sì, ma in nome di che cosa? Ed essere-l’altro, certo, ma in nome di chi? In ambedue i casi abbiamo a che fare con un divenir-molteplice dall’unità. Siamo uno ma il nostro essere uno è un "cattivo uno". Vogliamo la metamorfosi, in quanto siamo figli di Proteo e di Eraclito, non di Gorgo e di Parmenide. “Mi voglio spezzare finché non sarò intero”: chi vuole spezzarsi è già tutto d’un pezzo ma non accetta questo suo essere rispettabilmente monolitico. L’interezza, o meglio, l’intero sarà il risultato di un farsi molteplice, attraverso un cut-up dell’unità. Faccio abortire l’unità, la rendo rigogliosa, la spingo contro se stessa, per amore di un’altra unità, rimandata e superiore, di ordine superiore poiché rinviata alla fatica ricompositiva dei suoi frammenti. Io ordino a me stesso: "sii l’unione di 1 e -1, ovvero a + (-a)". L’ordine è: "perdi te stesso spezzandoti e sii un altro te stesso". La radice si sfalda in radicelle, direbbe il Deleuze di Millepiani. L’intero a cui mi preordino è più dell’unità: è il prodotto delle operazioni naturali e negative, così che esco da me stesso per non uscirne più, divento, appunto, intero. In nome di una più alta unità. Questa risonanza di unità soggettiva è del tipo ideale io=Io, e non del tipo fenomenico io=io. Uno/Molti/Intero. “Se tu fossi solo ti divideresti in due, affinché una parte di te formasse l’altro”: chi vuole essere l’altro è perché non sopporta la solitudine dell’unità. Allora si deve spezzare questa unità bianca, boicottare il suo imperialismo e frammentare le sue colonie. Ma non si ricava, in questo caso, una unità più alta, un Io da un io, ma un altro, anzi, “l’altro”. Rimbaud insegna: “Poiché Io è un Altro (…) E’ falso dire: io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa”. Ma Canetti si spinge oltre l’idea dell’estraneità dell’io da se stesso, oltre il complesso schizoide della grammatica dell’ “io penso”. “Una parte di te forma l’altro” significa: l’io è relazione in sé e per sé con l’altro, lo può presagire, produrre, contenere.

L’io è l’arte della relazione per inclusione. Farsi in due nel senso di fare la parte di due, poiché l’altro, fuori di me, è assente. L’ordine è il seguente: 2= 1 + ½. L’io, sempre sospeso tra le avversità dell’identità e la condanna all’estraneità, non ha bisogno di moltiplicarsi, gli basta, anzi, dividersi e fare due parti. Come dice Jean-Luc Nancy in La partizione delle voci “è la partizione a fare dono”. Il senso di questa partizione (che mostra come io possa includere l’altro come parte di me, nel caso di una totale solitudine e di un assoluto abbandono) disegna questa linea di fuga: Uno/Molti/Parte (d’Intero).

Il Narciso si divide in due nel desiderio di essere l’intero. Narciso è “infelice di non essere differente da se medesimo” (Ovidio). Quando scopre di non potersi separare da se stesso (Iste ego sum!) in lui grida il rimpianto di non poter amare qualcuno che sia distante da sé, non incluso come parte. Jean-Pierre Vernant (in Figure, idoli, maschere) scrive: “Lo specchio in cui Narciso si vede come se fosse un altro, in cui egli s’innamora di questo altro, senza dapprima riconoscervisi, e in cui lo ricerca nel desiderio di possederlo, traduce il paradosso, in noi, di uno slancio erotico che mira a riunirci a noi stessi, a ritrovare la nostra integralità, ma che può riuscirvi soltanto attraverso una deviazione. Amare significa tentare di riunirsi nell’altro.(…) Per ritrovarsi, unirsi a sé, piuttosto che semplicemente sdoppiarsi e proiettarsi – restando tuttavia “se stessi”- nella situazione che è quella di un determinato altro, occorre dapprima perdersi, abbandonarsi, farsi interamente altro da sé. Se faccio di me, come Narciso, un altro, un determinato altro, non posso né raggiungere né ritrovarmi. (…) Nell’altro che mi è prossimo, che mi è simile, che mi è di fronte, la figura che devo decifrare è quella dell’estremamente altro, del radicalmente lontano."

Narciso, questo “circuito chiuso”, come ebbe a scrivere Marshall McLuhan (in Gli strumenti del comunicare) è l’uomo solo che non vedendo l’altro lo trova in sé. Non vede l’altro perché è intorpidito (narcosis-Narciso). “Un’estensione di noi stessi determina in noi uno stato di torpore”. Fascino dell’estensione di se stessi, riprodotta in un materiale diverso da ciò di cui sono fatti. Per sopportare un sovrastimolo o uno shock il sistema nervoso centrale blocca la percezione e entra in una stato di torpore (mito di Narciso).

Il nostro Narciso, rappresentante dell'oscenità del bianco, si presenta come pura estensione, senza soluzione di continuità nè col l'assolutamente altro nè con l'immediatamente prossimo.

Il discredito, mal temperato e frettoloso, in cui è caduta la figura regolativa del Narciso, ha la coda lunga. Se si volesse prenderne un capo per tirarsi dietro i frammenti del volto narcisistico spezzato occorrerebbe risalire a quel cortocircuito dell’adattamento qual è la società desessualizzata in cui vige la burocrazia del sentimento, con i suoi bilanci di amore offeso e amore rivendicato. L’impotenza ad amare, ovvero l’incapacità cronica ad abbandonare il diritto-di-sentirsi-corrisposti, e, quindi, ad accettare l’excessus o lo sconfinamento dell’innamorato, e, con ciò, il rifiuto a-prioristico nel lasciarsi positivamente compromettere dall’assenza di specularità nella relazione amorosa, hanno condotto alla formazione di tipologie relazionali il cui carattere è eminentemente questo: a nessuno è dato di vivere la vita nel pieno delle proprie forze, qualora decida di vivere una vita-in-due. Ma tolto l’enigma, resta la sfinge. Con la rinuncia allo sviluppo delle proprie forze, mettendo in due, dando il segno del due a queste forze, l’impulso erotico si piega alla mera conservazione delle due monadi che liberate e divise nel sesso finiscono per desessualizzarlo (desesualizzazione bianca).

La divisione delle forze all’interno della coppia mira ad abbassare il potenziale energetico che dovrebbe legarli: il sesso, quello non compensativo e prescritto freudianamente "a dosi". Gli amanti bruciano le tappe del loro amore provandone l’aderenza al modello del “rinuncia tu a te stesso che io già rinunciai a me”. Il puzzo di ripetizione stantia di un modello che deve provare se stesso facendo a meno della variabile esplosiva in cui consistono i suoi rappresentanti ci coglie ogni qual volta ci avviciniamo all’altro per vedere se è minimamente giusto per noi, se mostra, nel primo quarto d’ora, i requisiti per congiungersi alla nostra metà spezzata (spezzata come una carta moneta). E’ lo schema della decadenza dell’Ideale dell’Io (e non dell’Io-Ideale), ripetuto e provato fino a che non esistono, anzi, non sussistono nient’altro che mezzi-uomini e mezze-donne, in nome di un rapporto di scambio bianco, in cui nessuno deve “sforare” nell’amare-di-più-dell’altro.

In opposizione a questo equilibrio desessualizzato, burocratico e narcotizzante sta l'equilibrio tragico del motto sofocleo "Eros anikate makan" (Eros invincibile nella lotta). Simone Weil ha condotto una profonda riflessione sul detto di Sofocle, all’interno dell’analisi del corpo come intermediario tra io e mondo. Secondo Weil, Eros (che ella definisce in termini di “desiderio”) è alcunché di intangibile, anzi, è ciò che vi è di massimamente reale. “Ogni desiderio è reale” e proprio attraverso l’indiscutibile realtà del desiderio “lo scrigno di Arpagone diventa secondo corpo”, ovvero prolungamento del corpo, bastone da cieco. L’immagine del “bastone da cieco” non è affatto un hapax negli scritti della Weil. Concetto chiave, come essa stessa dichiara, il “bastone da cieco” s’incarica, di fatto, di assumere una funzione concretante rispetto ai tre rapporti principali dell’essere umano: io-mondo, io-altro, io-società.

L’avverbio greco metaxù è il designatore ideale tra questi rapporti e il loro rilievo concreto. Il bastone da cieco, il tesoro di Arpagone, ma anche la lettura, segnatamente la prima lettura di un testo, rispetto alla seconda, sono del genere del metaxù, in quanto “intermediari”, “utensili”. In generale, tutte le “cose preziose”, dice la Weil, posseggono la natura dell’utensile. Ma, soltanto il desiderio (Eros) è, in sommo grado, “intermediario” e soltanto il desiderio produce intermediari tra l’Io e qualcosa d’altro da sé. Se si può affermare, con Sofocle, che “Eros (è) invincibile nella lotta” (Eros anikate makan) è perché esso presiede ad ogni rapporto, anche a quello che passa per la lotta e la contesa.

D’altronde, il corpo è in relazione con l’io come il bastone lo è per il cieco, così che “è la punta del bastone ad essere sensibile e non la mano”. Si rammenti che a fare da sfondo a questa analogia c’è il passo di Spinoza (Etica, LV, XXXIX) in cui è riportato: “Colui il cui corpo è atto a moltissime cose ha una mente la cui maggior parte è eterna”. Il corpo desiderante è il corpo erotico, il che equivale a sostenere anche che un corpo privo di desiderio non è semplicemente un corpo solo ma un corpo senza capacità di lottare e di uscire dalla lotta. Un corpo solo è un corpo discorde, mentre un corpo che desidera è aperto all’eternità o ne diviene accesso. Desiderare consiste dunque nella propensione a far entrare eternità in noi, sottoposti al tempo. Si tenga presente che Simone Weil considera l’uomo preso nel suo isolamento (San Giovanni della Croce), come l’unico essere in grado di identificarsi con l’universo. Questa identificazione tra uomo e universo rappresenta una sorta di salvezza terrestre per l’essere in quanto “l’identificazione con il tutto universale fa sì che l’uomo non sia sottoposto ad una qualche forza esterna. E qual è la forza esterna più temibile? Il tempo, che Weil definisce in maniera recisa come “la sola violenza”, puro asservimento, a causa del quale si viene condotti dove non si vuole andare (Giovanni, XXI, 18).

Alla base dell’interpretazione weiliana di “Eros anikate makan” deve scorgersi quello che, a ragion veduta, è da considerarsi un vero e proprio imperativo materiale: “Che l’anima dell’uomo si trasferisca in un’altra cosa: l’universo diventa la mia anima. Perciò deve diventare il mio secondo corpo” (concetto indù di atman). Eros, prima ancora di concedere all’io la propensione ad un rapporto con l’altro, con il mondo e con la società, stabilisce allora la condizione a priori per una relazione soggettiva tra io ed universo.

La traduzione di “Eros anikate makan”, nella versione di Hölderlin, suona così: “Geist der Liebe, dennoch Sieger/Immer, in Streit! Du (…)", ovvero “Spirito dell’amore, ciò nonostante sempre vincitore/ nel conflitto! Tu…” (Antigone, Dritter Akt, Zweite Szene, Chor).

La scelta di isolare in tre blocchi l’adagio sofocleo deve apparire fin da subito come forma di espressione tecnica di un principio di poetica. Nelle Note all’Antigone Hölderlin dichiara quella che chiama “legge calcolabile” dell’equilibrio tragico. Questa legge è espressa sotto forma di proporzione: “La regola, la legge calcolabile dell’Antigone, sta a quella dell’Edipo, come ≤ sta a ≥, sicché l’equilibrio inclina di più dal principio verso la fine che dalla fine verso il principio”. La tripartizione del verso sofocleo richiama direttamente a questo equilibrio, in cui il “ritmo delle rappresentazioni” (Hölderlin) è così disposto da far cadere la cesura più verso la fine, “perché è la fine che per così dire deve essere protetta contro l’inizio, e di conseguenza l’equilibrio inclinerà di più verso la fine” (Hölderlin). Ne ricaviamo le relazioni e lo schema che seguono:

“Geist der Liebe, dennoch Sieger” vale per c

“Immer, in Streit! Du” vale per b

“/” vale per a

così che risulti:

c ≤ ab

ovvero

Geist der Liebe, dennoch Sieger ≤ / Immer, In Streit!Du

Che la prima metà (c) sia più estesa della seconda (b) comporta il fatto che la rappresentazione di Eros come vincitore (Geist der Liebe, dennoch Sieger) sia intesa come uno scolio dialettico di difficile superamento. La virgola che separa “Geist der Liebe” da “dennoch Sieger”, e il “dennoch” stesso, hanno perciò la funzione di segnalare testualmente questa asperità logico-intuitiva.

La cesura (/) si trova spostata in avanti, in una sorta di differimento temporale tale che la fine (b) è tenuta lontana dall’inizio (a). Tenere lontana la fine significa qui voler proteggere Eros (=Geist der Liebe=Spirito dell’amore) da ogni contesa e da ogni conflitto (Streit).

Così Hölderlin, che traduce arditamente “Eros” con “Geist der Liebe”, esplicita la contradditorietà del motto sofocleo e, parimenti, assegna una supremazia ritmico-pausale, oltre che concettuale, ad “Eros” su “make”.

Il fatto che “lo spirito dell’amore “, qui invocato (Du), sia “sempre vincitore nel conflitto” è reso pensabile dal nonostante (dennoch). Dunque accade che l’amore non soccomba alla lotta che esso stesso va cercando e in cui esso stesso cade in quanto non è abbandonato al suo mero accadere, ma è guidato da un principium unificante e sintetico: il Geist. Attraverso lo spirito, l’amore non può essere internamente intaccato dal dissidio a cui partecipa, e, il dissidio, che pur accade e passa, si ritrova su un piano separato, spazialmente e temporalmente, rispetto a quello dell’amore. Eros vince il conflitto, differendolo, nell'equilibrio tragico.