sabato 5 gennaio 2013

Tabula bianca

 

di Alberto Giorgio Cassani


Dopo aver elencato i motivi per cui il bianco è uno dei colori più importanti nella vita dell’uomo (esprimendo l’idea di bellezza, potere, gioia, innocenza, spiritualità, ecc.), Herman Melville, nel famoso capitolo XLII di Moby Dick (1851), La bianchezza della balena, per voce dell’io narrante Ismaele, prova a spiegare i motivi per cui il bianco ispira, invece, un sentimento di “terrore”: «Eppure, nonostante questa montagna di associazioni con tutto ciò che è soave e venerabile e sublime, sempre nell’idea più profonda di questo colore si acquatta un che di ambiguo, che incute più panico all’anima di quel rosso che ci atterrisce nel sangue. [...] Era la bianchezza della balena che sopratutto mi atterriva».
Tra le varie spiegazioni, Ismaele ricorda come «nessuno possa negare che nel suo più profondo, ideale significato, la bianchezza evochi nell’anima come uno strano fantasma». La bianchezza, infatti, non fa che aumentare «il terrore di cose già terribili», determinando una sorta di «estasi paralizzata» di fronte a «quel candore».
Ancora nel finale, però, Ismaele non sa darsi completamente ragione del carattere perturbante del colore bianco: «non abbiamo ancora risolto l’incantesimo di questa bianchezza né trovato perché abbia un così potente influsso sull’anima».
Infine, però, una risposta la trova. Il bianco è un vero “simbolo”, duplice, come tutti i veri simboli: «simbolo [...] di cose spirituali» e, in uno, «causa intensificante nelle cose che più atterriscono l’uomo». Questo perché forse, come spiega Ismaele, «nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore quanto l’assenza visibile di colore e nello stesso tempo la fusione di tutti i colori: avviene per questo che c’è una tale vacuità muta e piena di significato in un paesaggio vasto di nevi, un incolore ateismo di tutti i colori, che ci fa rabbrividire?».
«Sicché – conclude Ismaele – tutta questa Natura deificata non fa che dipingersi proprio come una puttana che copre di vezzi il carnaio che ha dentro», che non è altro che un “sudario bianco”.
È forse un caso che gran parte dell’architettura del Moderno abbia scelto il bianco come
colore dominante?
C’è una foto che ritrae Casa Farnsworth (1845-1951) di Ludwig Mies van der Rohe, bianca nel paesaggio innevato di Plano, nell’Illinois. La perfetta, algida bellezza della sua struttura in acciaio bianco – in mezzo al bianco della neve – provoca un po’ di quell’estraniante inquietudine che angustiava Ismaele. Non ho citato a caso Mies.
Avrei potuto aggiungervi Le Corbusier (anche se lui, accanto al bianco, usa anche i colori primari, giallo, rosso e blu), fino a Richard Neutra e Marcel Breuer.
Bianche, soprattutto, sono gli esterni delle case di Adolf Loos, che fanno tabula rasa di ogni delittuoso ornamento jugendstil; bianco l’intero quartiere del Weissenhof a Stoccarda nel 1927, raffigurato ironicamente sulle cartoline dei detrattori del Moderno come un villaggio arabo.
Nel profetico e straordinario romanzo Sulle scogliere di marmo di Ernst Jünger del 1939, il bianco del Mediterraneo è sinonimo di civiltà contrapposto al nero dei boschi del Forestaro: la lotta – impari, in quel momento – tra il Bene e il Male. Forse il bianco dell’architettura del Moderno voleva semplicemente fare piazza pulita di tutti gli accademismi del passato e guardare ad un futuro migliore, ad una mitica Neue Welt. Un nero cupo ne seguì, come Jünger aveva previsto. Il bianco è un simbolo ambiguo, come aveva capito Ismaele.