sabato 10 novembre 2012

Mostrare, moltiplicare, comunicare: la rete dei musei della Provincia di Ravenna

 

di Eloisa Gennaro 

 


Selvatico Spore è un progetto che fa dei musei locali un volano per arrivare ad altri luoghi e per comprendere altri contenuti. E bianca è una mostra allestita sul territorio, in diversi musei e luoghi espositivi (che ai musei si riallacciano), che in un sottile gioco di rimando l’uno con l’altro – come tessendo una ragnatela – raccontano e sviluppano con linguaggi diversi, per analogie e contrasti, il tema della mostra.

Il Museo Civico delle Cappuccine a Bagnacavallo esprime mirabilmente l’identità locale attraverso le collezioni della pinacoteca storica e della sezione di arte moderna e contemporanea, che coprono un arco temporale lungo sei secoli, e la vivace sezione delle mostre temporanee.

L’esposizione permanente di una singolare e notevole raccolta di targhe devozionali in ceramica e la ricorrente realizzazione di mostre tematiche rappresentano le due anime del Museo Civico San Rocco di Fusignano, ospitato in un ex-ospedale accuratamente riallestito.

Nato per documentare l’attacco alla Linea Gotica, il Museo della Battaglia del Senio ad Alfonsine è un museo del territorio romagnolo durante la seconda guerra mondiale, che sottolinea l’intreccio dei fatti militari con la storia della popolazione civile affacciata sulle sponde del Senio.

Il Museo Civico Luigi Varoli a Cotignola si articola in più sedi, le cui collezioni rispecchiano la poliedrica personalità dell’artista cotignolese. Palazzo Sforza ospita le sue opere di pittura e scultura, mentre Casa Varoli conserva le sue memorie e le sue multiformi raccolte legate alla storia locale.

L’altrettanto eclettica raccolta antiquaria del medico e diplomatico Venturini è al centro del Museo Civico Carlo Venturini a Massa Lombarda: raccolte librarie, archeologiche, artistiche e naturalistiche si mescolano a oggetti curiosi in un’atmosfera da wunderkammer.

Infine il Museo Francesco Baracca a Lugo, che è idealmente presente grazie alla figura dell’eroe della prima guerra mondiale. L’allestimento racconta la vita del noto aviatore e ne offre un’immagine calata nel contesto storico e sociale del suo tempo.

Sei musei, frantumi identitari del territorio d’appartenenza capaci di restituire una visione d’insieme, che insieme ad altri trentaquattro fanno parte della rete museale a cui quindici anni fa ha dato vita la Provincia di Ravenna.

In Italia, dove esistono più di cinquemila musei, molto vicini tra loro e per lo più di ridotte dimensioni, la costituzione di reti museali rappresenta uno strumento essenziale a beneficio segnatamente dei musei più piccoli. Tale prospettiva è particolarmente significativa in una realtà come quella ravennate, che conta oltre cinquanta musei, disseminati dalla costa alla collina, dalle città d’arte alla pianura, caratterizzati da un’ampia varietà di collezioni e dalle medio-piccole dimensioni. Il Sistema Museale Provinciale è nato nel 1997 proprio con l’intento di valorizzare questo ricco, differenziato e frammentato patrimonio. È una rete territoriale che coordina e stimola il ‘gioco di squadra’: suo elemento caratterizzante è il Comitato Scientifico, attore fondamentale per lo scambio di informazioni, occasioni di confronto, e per programmare attività, con l’obiettivo di diffondere gli standard di qualità. Perché la conoscenza è il fine da perseguire, anche in tempi bui.

giovedì 8 novembre 2012

Cuori così bianchi.

Un immaginario dialogo tra Javier Marías e sua figlia.

di Elettra Stamboulis


- Hai finito?
- In che senso, ho finito? Intendi se ho finito di scrivere?
- Sì, vedo che guardi la pagina bianca.
- È così. Ho scritto la parola fine. Ma non so se questo significa finire. Perché sempre si può ricominciare. Decidere un nuovo inizio.
- Certo. Anche io a volte decido di cominciare un gioco nuovo. Comunque lo decido. Allora, hai deciso di finire?
- Credo di sì. Vedere la pagina bianca mi fa pensare alla fine. Che non ho più niente da aggiungere.
- È strano, tu dici sempre che la pagina bianca è un inizio, è la possibilità, non la fine. Oggi mi dici il contrario.
- A volte anche il contrario può essere vero.
- Papà, mi confondi. Il contrario non può essere vero. Solo ci possono essere due verità in una cosa che appaiono contrarie. Anche in alcune storie è così.
- Hai ragione, non mi sono espresso bene. Ci sono entrambe le cose, che non sono verità, in una pagina bianca. L’inizio e la fine. Solo quando mettiamo un segno, o non lo mettiamo, decidiamo in che parte della cosa vogliamo stare. A te piace più finire o iniziare?
- A me piace iniziare, quando il gioco finisce è sempre un po’ triste. Lasci qualcuno o qualcosa. C’è un abbandono.
- Però puoi sempre iniziare qualcosa di nuovo. E quindi c’è sempre anche la possibilità di un nuovo inizio. Come in questa pagina bianca. Potrei ricominciare a scrivere adesso, e dopo aver scritto Un cuore così bianco, scrivere un altro romanzo oppure disegnare oppure tenere un diario. Oppure stare a parlare con te...
- Parlare con me è sempre meglio, è meno rischioso e più divertente. Anche se a volte mi sembra che preferiresti continuare a guardare la tua pagina bianca... Di cosa parla il tuo libro?
- Credo che parli del segreto e della sua possibile convenienza, della persuasione e dell’istigazione, del matrimonio, della responsabilità di chi ha saputo, della possibilità di sapere e dell’impossibilità d’ignorare, del sospetto, del parlare e del tacere.
- È come la pagina bianca, insomma. Ci sono sempre due cose. Parlare e tacere, sapere e ignorare. Voi adulti mi confondete. Sembra che non ci siano mai confini tra le cose. Capisco l’inizio e la fine, ma sapere e ignorare. Sono proprio due cose diverse.
- Forse invece è proprio così in tutte le cose. Coesistono due cose diverse. Anche tu sei il risultato di due cose diverse, il papà e la mamma.
- Uhm, però io sono io. E sono anche un po’ la nonna. E papà, se ci sono sempre almeno due cose, come si fa a decidere? Perché tu scrivi oppure smetti, oppure disegni?
- Difficile rispondere. Tu perché decidi di giocare oppure di smettere?
- Io smetto quando mi annoio. Quando sento che ho finito con quel gioco lì, non c’è più niente che possa succedere.
- Allora sappiamo quando si smette. E quando si decide di iniziare?
- Io voglio sempre giocare. Quello non smette mai. Inizio quando trovo il modo di farlo.
- Anche io vorrei sempre iniziare. Ma a volte non c’è il modo. Non c’è il modo di trovare il capo e la coda, oppure si è semplicemente bianchi dentro per un po’.
- Anche tu hai il cuore bianco allora? Come nel tuo libro...
- «Le mie mani sono come le tue, ma ho vergogna di avere un cuore così bianco». Lo dice Lady Macbeth al marito che ha appena ucciso un uomo. Bisogna non essere contagiati dalle colpe degli altri, non conoscere né l’inizio né la fine della colpa.
- È come far finta di niente?
- Non si può far finta di niente. Nel momento in cui il segreto è svelato noi diventiamo parte della colpa, dobbiamo decidere come andare avanti nella pagina bianca. Anche lasciarla bianca è un gesto. Anche non fare gesti.
- Capisco. Io allora ho il cuore bianco perché sono bambina?
- Alcuni dicevano di sì. Il bambino è una tavola bianca: ma quando? Non mi pare possibile trovare un momento così bianco. Tu sei il risultato di scelte o caso, che non sai. Nessuno di noi sa esattamente da dove viene. Non scegliamo il nostro nome e siamo già alla nascita una pagina su cui è stato scritto da altri.
- Allora ho deciso. Non ho il cuore bianco, ma lo vorrei con tutti fiorellini. Me lo puoi fare?
- Ci provo.

mercoledì 7 novembre 2012

Il bianco può accecare.  Adrian Piper e Kara Walker

di Serena Simoni



Per quanto la questione della razza sia un falso problema dal punto di vista scientifico - data l'impossibilità di individuare categorie di esseri umani sulla base del patrimonio biologico e genetico - rimane chiaro che elementi rilevabili come il colore della pelle e i tratti fisionomici, o gli usi e i costumi diversi, hanno alimentato e ancor oggi nutrono abbondantemente pratiche di razzismo e di discriminazione. Essere bianchi o neri - per quanto sembrino concetti superati nel mondo dell'arte e della cultura - rimangono invece alla base di solide costruzioni sociali anche in un paese di recentissima immigrazione come quello italiano, dove il tema del razzismo e, al contrario, dell'opposizione ad esso, si poggiano su tematiche inerenti alla religione e alla nazionalità, epurando una serie di altri aspetti non meno importanti.

Il tema del razzismo è stato centrale nella riflessione di numerosi artisti statunitensi fin dagli anni '70, nel momento più internazionale dei movimenti dei diritti civili e della liberazione sociale. E' stato ad esempio affrontato da un'artista come Adrian Piper (New York 1948), che ha cominciato ad interessarsi fin dalla metà di questo decennio a questioni inerenti all'identità, alla razza e al genere, affrontati tramite opere prevalentemente concettuali, video e azioni. Nel 1973 Piper realizza Mythic Being, prima analisi dei processi di costruzione delle differenze razziali e di genere: appartiene a questa serie di lavori - alla cui base sta una complessa e progressiva spoliazione delle caratteristiche soggettive - una performance in cui l'artista recita un mantra tratto da una frase dei propri diari, mentre gira per le strade vestita da young black con pantaloni, occhiali scuri, parrucca afro e baffi, secondo gli stereotipi usuali. Confronto, alienazione, accettazione e differenza sono motivi esaminati sia come fenomeni sociali, che meccanismi interni alla stessa persona.

Abituata a pensare che il personale è anche politico, nel 1981 Piper - mediando la percezione di sè con quella restituita dagli altri - disegna degli autoritratti in cui esagera visibilmente gli elementi fisiognomici che appartengono allo sterotipo della razza nera, mentre in un'azione reiterata fra il 1986 e il '90 - My Calling (Cards) -, distribuisce dei biglietti da visita con osservazioni esplicite sul razzismo praticato da persone che incontra - responsabili di battute, commenti o affermazioni razziste - mettendoli a disposizione anche ad altre possibili vittime. Suscitare reazioni nel pubblico è l'effetto di molti dei suoi lavori: in Cornered - installazione del 1988 - Piper sfrutta la chiarezza della propria pelle per presentarsi su uno schermo mentre afferma di "essere nera", un'asserzione contestata dall'apparenza, ma messa in dubbio anche dall'esposizione di due certificati di nascita del padre dell'artista, in cui si afferma, in uno, la sua appartenenza alla razza bianca, nell'altro, a quella nera. Il tema dell'appartenenza alla razza e la percezione dell'altro sono obiettivi prioritari.

Rispetto a Piper, Kara Walker (1969) affronta tematiche non distanti, ma con tecniche e argomentazioni diverse. Nella varietà di impiego dei media, sono più famose le sue lanterne magiche e installazioni di silhouette di carta tagliata che l'artista ha cominciato ad utilizzare dall'inizio degli anni '90. La scelta della tecnica non è ininfluente: importata negli Stati Uniti nel corso del '700, ha molto successo fra le classi aristocratiche e l'alta borghesia, dove diventa nel tempo una forma artigianale praticata negli insegnamenti riservati alle signore della middle class. Il legame della tecnica alla ritrattistica, la semplificazione necessaria dei lineamenti fisiognomici, così come la riduzione al bianco dello sfondo e al nero delle forme (o viceversa), sono elementi che ricordano il riduzionismo su cui si basano gli stereotipi razziali.

Whiteness e blackness sono i due termini che si confrontano nel lavoro di Walker, poco interessata a trattare l'appartenenza razziale in modo autoreferenziale. Quello che la muove è l'analisi delle relazioni fra bianchi e neri dal punto di vista storico, emozionale, fisico, sessuale, razziale, in particolare quando e dove si manifestano dinamiche di potere. Ambientate generalmente nel Sud degli States prima della guerra civile, le sue scenette mettono in mostra una meta-storia, frutto della contaminazione fra realtà, letteratura, finzione e fantasia. Il procedimento ibrido è scelto perchè del tutto simile alla costruzione della memoria storica e delle identità razziali.

Violenza e soprusi sono mescolati ad una vena ironica, dagli accenti talvolta sarcastici, ma l'inquietante che travolge lo spettatore è la relazione di dominio sessuale e di bestialità che ricade su bambine, bambini e donne di colore. Sessualità mescolata a violenza e humour non rendono comunque facilmente accettabili le opere, che mettono sul piano pubblico ancora dei veri e propri tabù, ovvero quel complesso di desideri e piacere - nel ventaglio più ampio delle componenti che arrivano alla pura devianza - collegato alla storia della schiavitù dei neri.

Tutti le associazioni più triviali e cattive in relazione alla blackness emergono nel lavoro, esposte senza pudore. Walker non cerca stigmatizzazioni morali dei comportamenti, ma una presa di consapevolezza del rimosso, una sana e rivalutabile vergogna, magari "per aver semplicemente creduto nel progetto del modernismo".

I contesti delle produzioni di Piper e Walker vanno ben oltre al mondo dell'arte: durante gli anni '70, molte attiviste nere fuoriuscirono dai movimenti dei diritti civili e del Black Nationalism perchè al loro interno permanevano atteggiamenti di forte misoginia e non c'era modo di discutere i nessi inestricabili fra patriarcato, razzismo e sessismo, che - per prime - queste intellettuali indagavano. Genere e razza sono da sempre meccanismi reciprocamente costitutivi, in grado di costruire modelli sociali gerarchici dove il primo posto è riservato agli uomini bianchi (purchè etero e occidentali), il secondo alle donne bianche, poi ai neri e - in ultimo - alle donne nere.

Emarginate, le teoriche del Black Feminism provarono negli stessi anni a trovare spazio nei movimenti delle donne, senza trovare molta ospitalità: il tema della razza, così come quello della classe sociale, per loro elementi fondamentali di riflessione, venivano espunti dagli obiettivi principali della riflessione: l'essere bianche o nere, ricche o povere, erano percepiti come fattori secondari rispetto alla differenza prioritaria fra donne e uomini.

Mutuando il concetto di invisibilità a se stessi utilizzato nei Men's Studies a proposito di un modello maschile che rende l'omologazione degli uomini ad esso - tramite la cancellazione di tutto ciò che si distanzia, insieme alle soggettività e ad alcune parti vitali dell'individuo - il colore bianco della pelle assurgeva a categoria femminile neutra e onnicomprensiva, in grado di cancellare differenze sostanziali e discriminanti, anche all'interno delle riflessioni "bianche" più radicali. Questo almeno fino alla seconda metà degli anni '80: da allora in poi, grazie anche all'apporto aggiuntivo di riflessioni da parte di altre femministe di cui molte non occidentali, le inter-relazioni fra sessismo e razzismo sono diventate centrali nell'analisi della costruzioni dei generi, così come hanno dato un contributo fondamentale all'analisi del concetto generale e storico di alterità, in generale come all'interno della sola comunità maschile.



Bibliografia:

Guido Barbujani, L'invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Milano 2006

Guido Barbujani, Sono razzista ma sto cercando di smettere, Roma 2010

Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea, Roma 2011

Uta Grosenick, Women Artists, Köln 2002

bell hooks, We Real Cool. Black Man and Masculinity, New York 2004

bell hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano 1998

Lisa Gabrielle Mark (a cura), WACK! Art and the Feminist Revolution, Cambridge-London 2007

Annamaria Rivera, La bella, la bestia e l'umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo, Roma 2010

Annamaria Rivera, Estranei e nemici: discriminazione e violenza razzista in Italia, Roma 2003

Serena Simoni, Anni Ottanta e Novanta: il corpo nell'arte contemporanea, in L. Gambi, M.P. Patuelli, S. Simoni, C. Spaolonzi, Partire dal corpo, Roma 2010




Sitografia:


learn.walkerart.org/karawalker

adrianpiper.com

I modi esausti e potenti del candore nel giardino del mondo

di Ranieri Frattarolo


Se la luce che concede il dono della vista ne sbianca a un tempo referenze, segni e colori, non ci salveranno la spuma di candidi lavacri né gli aloni di un nuovo miraggio, immersi nell’incessante rito lustrale e nell’imperativo impulso del riscatto: nel naufragio, all’approdo, ciò che accende di vita nel bianco alla fine spegne nel nero o ricandida…

Ulisse è sulla spiaggia, svenuto, rotolato dall’impeto delle ultime onde, ma salvo. E’ bianco dello spolvero di una sabbia dalla grana fine. E’ bianco della salsedine del mare che ancora lo avvolge e della carezza infranta e leggera di una spuma vergine, subito perduta e rinnovata dai conati sofferti della risacca, che sembrano respirare per lui. La battigia lo battezza a un’ennesima rinascita e lo biancheggia per ultima, vincendo sul biancore accecante della luce e sull’invadenza nivea delle nuvole basse, sul calcare eroso di rocce affioranti e sui sentieri sfarinati di conchiglie e ossi di seppia, che conducono, inconsapevoli come una scia, ai candori disseccati delle ramaglie degli alberi del mare e a un balenio di gabbiani litigiosi, che alzano indispettiti i loro biancori alati fra acute strida. In alto, nella lontananza delle dune, una fuga di coste eburnee: capovolte e immacolate vestigia di un cavallo possente, risuonano come canneti di palude filtrando il vento. Il figlio del dio che ha offeso, gli ha concesso il dono e il privilegio del viaggio e lo incanta ora con la voce profonda del suo galoppo scalciante, accompagnando lo schiocco dei flutti in ritirata dalla rena e dalla sua anima e l’ebbrezza e la delusione dell’arrivo…

La grande cetra è di un bianco più pallido e permanente della sabbia venata dal giallo solare, e risuona di solitudini veloci, dalle sonorità cupe come l’eco delle conchiglie vuote, agili a percorrere in un baleno l’incanto silenzioso del mondo e l’anima dell’eroe. L’essenza di quel corpo ne è trafitta nell’inconscio, contaminato da ogni colore, ma che ora risuona nel bianco di quelle verità, in quel bianco di vita e di morte, di paura e calcinazione, in una bava d’azzurro verde che schiuma nuda di riflessi su di una spiaggia sbiancata. Non possiamo comprendere l’antico: il passaggio della soglia dell’Averno aveva il colore del bianco ipogeo delle ossa o quello di bende eterne e non il bianco delle ali dei gabbiani o quello delle nuvole del cielo e la clessidra di sabbia bianca , attraverso l’omphalos di vetro stretto del destino, indicava non il tempo, ma i suoi rovesci e le quantità di cielo e terra che mescolate si concedevano alla vita. Non possiamo comprendere la vita degli antichi, perché essa è ora il nostro sogno, un sogno bianco e distaccato di statue candide e solenni, di visioni divine ancora accese di splendore, come ceneri ai margini del pulsare di un fuoco muto e senza crepitii, che lambisce inudibile spazi ormai fantasticati. Oggi un bianco biblico ha smesso di rivestire il panteismo degli elementi e di espanderci tra gli dei, ma ci sospende ancora su cosmogonie dell’anima, scenari privati e particolari in cui risorgiamo, recuperati dai ricordi degli antichi paesaggi del mito e ricostruiti con il luminismo punteggiato delle figure di pietra bianca presenti lungo le grevi teorie di siepi dei giardini, che sembra risuonare di una melodia discreta di albe nuove e personali, sullo sfondo del basso continuo di una notte di verdi cupi. Nella Genesi, sul nero dell’abisso, il bianco nasce e s’illumina scenograficamente della leggerezza dell’occhio divino, galleggiando evanescente per poi trasformarsi nello sfondo diurno della creazione, diffondendo il giorno e partecipando proteiforme ai suoi mille profili. Divenuto la luce visibile di Dio, il bianco recita ancora oggi il suo ruolo di sfondo di dimensioni terrene e ultraterrene e di punto di partenza spaziale e di arrivo temporale in occhi neonatali e in quelli dei defunti, in qualità di psicopompo dell’anima, e non occupa più i nostri spazi psichici e la natura essenziale delle cose, ma semplicemente li circonda, come il bianco degli occhi cinge l’iride. Il bianco tende a rinforzare tale ruolo, nell’inconscio collettivo contemporaneo, con le quinte bianche appartenenti alla fenomenologia degli oggetti e delle sostanze comuni, caricandosi del potere della cancellazione dei suoi contaminanti e dell’abrasione del mondo cromatico di superficie, cioè del potere di affermazione, con lo scolorimento, di ciò che rimane quando tutto il resto scompare. Il bianco della carta sbiancata ben rappresenta questo potere, nutrendo programmi, desideri, analisi e memoria della nostra formazione e aprendosi come un vero libro bianco sui cicli esistenziali della vita. Il bianco del mito affiora ancora nei manufatti umani di argilla chiara, nel legno, nel sasso, nelle ossa, dove insiste indisturbato con uno straordinario livello di sopravvivenza cromatica, insito nel suo essere non rivelazione, ma manifestazione divina dell’essenza stessa delle cose. Gli altri colori emergono tragici, impercettibili e stremati attraverso lo sterrato dell’archeologo o spuntano, in modi più magici e meno volgari, meno ipotetici e sottratti, attraverso gli amorevoli livellamenti delle buche d’impianto del giardiniere. Non scoperti nella terra, ma scoperti dalla terra e indotti da essa a librarsi liberamente nella luce e nelle forme vegetali, affiorando nel tessuto di gemme, petali, bacche e pomi, cortecce e amenti che li declinano sobriamente o in maniera accesa, rinforzandone le tonalità pastello nelle velature dell’ombra o esponendoli senza pentimenti allo schiarimento del fulgore diretto del pieno sole. I colori così esposti sbiadiscono spesso inevitabilmente, partecipando del fluire del tempo nel segno biblico della luce e tornando allo sfondo di un biancore originario quando tendono a perdere l’identità cromatica, perché il bianco è come il genere femminile della sessualità, una sorta di tinta base cui si aggiungono tutte le altre con vari riti d’iniziazione. In giardino i colori si conservano tenacemente nel loro pigmento solo con una forte volontà maschile di separazione e di proiezione e attraverso un corredo materiale di vari spessori e differenti incarnati di fibre vegetali, che assorbe i raggi o li riflette su sensibili e impercettibili inclinazioni, con varie dimensioni, densità di affollamenti ed estensioni di foglie e petali sui rami. I colori della tessitura vegetale si effondono così, con sorprendenti alternative di opacità e trasparenze, su retinature filigranate che ne articolano, all’interno delle partizioni dei tessuti, la successione di sfumature. Solo nelle faglie e nelle vene della roccia l’invaiatura dello spettro cromatico si conserva inalterata nel proprio variegato sorriso di luce, ma in giardino non sempre i colori recedono affievolendosi sul bianco. Spesso assumono l’aspetto naturale di candori espliciti e diretti, mitici, profumati e pronubi più delle altre tinte, in habitat dove circondati di oscurità ne vengono a loro volta segnalati, magari macchiati, appartenendo a radici che la terra ha inghiottito, similmente alle materie spatinate, spellate, raschiate, restituite dagli scavi stratigrafici. Quest’ultime, con quell’aria esausta e svincolata, inaridita o intrisa, debole della fragilità della polvere, difendono tenacemente e in misura tanto più energica, vigorosa e paradossale il loro laconico mistero, negli stessi modi con cui funghi, penicelline e batteri, tramano anch’essi in bianchezza un’ardita conciliazione tra la potenza e il disfacimento del mondo. Avviene però anche il contrario e il biancore dei boccioli di molte rose e d’infinite fioriture di bulbose, manifestato inizialmente con pallori virginali, si scompone spudorato in piena apertura di corolle attraverso umori biochimici e d’incrocio genetico che si tingono di porpora e violetto, d’azzurro e d’ogni variante del giallo e dell’oro o si contamina di sentori cromatici appena avvertibili, che affiorano in un impercettibile alito al di sotto del viraggio leggibile della velatura. Sempre il bianco dissipa l’incertezza cromatica di petali e pistilli, quando non sanno esattamente come tingersi, striandoli e puntinandoli di aloni o strisciandoli di lattici gocciolanti e densi, e con lo stesso colore delle creature che attraversano il confine tra il reale e l’immaginario, si libra in inconsistenze soffici di ciglia, barbe, filamenti e capsule cipriate di semi nel vento o ingrassa sotterra in tuberi e bulbi e s’infiltra, in magiche simbiosi, nella fitta rete della penetrazione apicale, sulla punta delle radici più curiose e intraprendenti. La natura del bianco è a un tempo colore, spazio-superficie, luce e spettro cromatico ed è contigua ai concetti di trasparenza, opacità, cancellazione, argento, luminosità, giallo e chiarore, con cui si confonde e da cui si distingue. Nella nebbia dello sfumato paesaggistico o leonardesco la qualità del bianco comprende in maniera singolare sia i valori effusivi, biblici, della modernità, sia quelli intensivi e immanenti, panteistici, della classicità: corrispondente visibile sul piano tonale dell’animo umano, il bianco “alla maniera del fumo” ne rivela i trapassi continui dell’essere, la varietà e variabilità delle sue qualità generalmente impermanenti. Essendo d’altronde il bianco e il nero non solamente colori ma spazio, il bianco sfumato e gradualmente amalgamato ai trapassi di nero e di grigio, riesce a trasfondere le dimensioni spaziali del buio e della luce l’una nell’altra e cioè la superficie della luce sopra e dentro i volumi abissali insiti nel buio e rivelatori della metafisica del mondo oscuro. La foschia chiaroscurale nutrendosi del simbolismo profondo della psicologia dell’inconscio è in grado di fondere, attraverso i valori spaziali della luce bianca e del buio, la struttura dei mille antichi fuochi divini della psiche individuale nell’abbaglio effusivo e universale dell’unico Dio della modernità. E’ per questa ragione che nei grandi giardini le caligini e le brume proprie del paesaggio atmosferico cangiante, favorite dal disegno di opportune architetture vegetali e riprodotte in maniera non arbitraria, segnano i percorsi e gli scorci prospettici della pregnanza di ombre e velature originariamente metafisiche. E’ il matrimonio mistico dell’animo umano con l’anima della natura, la fusione creativa della Genesi nello spirito d’Arcadia, che s’imprime col vento, con le carezze delle piante e i suoni e gli odori, nel tatto, nell’olfatto e nell’udito dell’uomo, in modi solo parzialmente trasmissibili alle altre arti con tale orchestrazione d’intensità. Agli antipodi del morbido digradare di questi bianchi passaggi appare la luce calda e soffusa del tramonto solare, macchiata da contorni d’oscurità netti e bassi e quella del bianco dei pleniluni nevosi, dai chiarori contrastati da laghi d’ombra ricchi di sfondi più profondi. Entrambi ci portano agevolmente dal sole alla luna e dalla spiaggia del mito odisseo a un mito spiaggiato nella banalità interpretativa dell’imitazione di massa e offerto in sacrificio d’ostensione ai volenterosi epigoni sui manuali d’orticoltura: il giardino bianco di Sissinghurst Castle, creato dai rigori poetici di Vita Sackville-West in una gelida notte d’inverno… bianca di luna e di neve. Siamo sempre pronti a parlare di colori, ma troppo schivi a viverli e il bianco per noi s’immedesima, in taluni irripetibili istanti, con qualcosa che c’irretisce per sempre, in una concentrazione magica della bellezza e del significato del tempo della vita. E’ quanto accadde alla poetessa in stivaloni e insigne baffuta giardiniera inglese che coniugò altrettanto bene botanica, colorismo e architettura verde tra ‘800 e ‘900. Il progetto del giardino bianco in realtà nacque all’insegna del grigioblu e del bianco e si giocò in direzioni che richiesero cultura visiva, esperienza di pratiche orticole e sensibilità educata da vastità di letture: una sapiente analisi strutturale in spazi quadrati della morfologia floreale dei rampicanti bianchi, allevati su pergole della stessa forma di quelle compartimentazioni e sposati a un tripudio di argenti cinerei e di fioriture terricole più o meno immacolate o bluastre di bulbose e perenni. La gentildonna alternò sulle pergole, fioriture differenziate per dimensioni e sfumature di bianco, per grandezza di corolle e tipo di fogliame, calibrando esemplari a offerta variata di portamento e inclinazione di foglie e fiori. Diversità di “pieni” vegetali di corolle e di verde e di “scansioni vuote” di luce e d’aria componevano la trama minuta di queste composizioni, trapuntando coperture dagli adombramenti minimi, ma differenziati e plastici. Studi cromatici rigorosi selezionarono strati di fioriture simultanee o cronologicamente successive che sprigionando spontanee associazioni di profumi e aromi offrivano colori studiati e selezionati per risplendere nella riflessa luce lunare o in quella serale, e non nei raggi del giorno. Studiando l’altezza delle palificazioni d ei pergolati, rispetto al rigoglio delle piante argentate e a foglia grigia situate nelle aiuole a livello del suolo, Vita Sackville-West giocò con gli effetti della lontananza sulla percezione del colore, distinguendo le due diverse modalità dello sguardo rivolto a terra e rivolto verso l’alto e operando con il primo sulla vicinanza, analiticamente come uno zoom, sui contorni unici di ogni singolo fiore e con il secondo sulla distanza, sinteticamente come un grandangolo, garantendo la fusione cromatica dell’indistinto. Il risultato fu il contrasto spettacolare tra lo sfumato della macchia pittorica delle coperture in alto e la visione scandita di un colore discreto, perché separato all’interno di ogni corolla, nelle aiuole in basso: due vedute che corrispondendosi in armonia cromatica, rimandavano meravigliosamente l’una all’altra. La delineazione di contorni più nitidi e ravvicinati nelle piantate a terra conservava però pur sempre un effetto di massa latente: nei quadrati di spettanza, il “vuoto” collettivo di svettanti spighe, pannocchie, corimbi e ombrelle, colti nell’insieme, si contrapponeva incisivamente, come superficie di terra, al “pieno” degli aerei volumi coperti di verde e fioriture delle pergole, declinando su scala maggiore e su due piani differenti in alto e in basso, il gioco dei vuoti e dei pieni minimale e complanare, di aria, foglie e petali, presente nelle strutture rampicanti delle tettoie fiorite. Spalliere da muro completavano lo scenario, in alcuni punti, integrando la loro verticalità con i piani orizzontali, sfalsati, dei fiori della terra e dell’aria. Nonostante l’esaltazione dell’ingegno creativo profuso nel progetto, lo sguardo profondo della sua articolazione, improntato alla luna e alla sua luce o a quella del suo annuncio crepuscolare, non viene mai eccessivamente spiegato e solo raramente menzionato. La luna generalmente risplende su contorni deboli, affievoliti dall’ombra. Le sagome che risultano da tale adombramento sono sottratte alla cancellazione del buio, ma accorpate con effetti di massa nei chiari di luce riflessa lunare, rivelando effetti unificanti di biancore analoghi a quelli dell’omogeneità nevosa. Lo sfondo nero del firmamento stellato rinforza il biancore dei fiori ricadenti e sospesi e l’argentatura bluastra delle foglie da aiuola, arricchendoli delle trasparenze del plenilunio nella penombra di un’oscurità analoga al crepuscolo solare. Perfino il ritaglio di sentieri e corridoi, in uno spazio non grande e chiuso da una siepe e da un muro, risente dell’espansione brillante della ghiaia chiara nei lumi della notte. Un risultato complicato, realizzato da Vita Sackville-West con modestia pionieristica all’interno di una tradizione inglese che già conosceva l’applicazione dei principi della pittura di paesaggio alla composizione dei giardini e che faceva ripetere a Gertrude Jekyll “se un brutto fiore ha quel punto di bianco si richiede ugualmente nella bordura, perché non è mai veramente inutile e neppure brutto”. Il giardino bianco immaginato o sognato a occhi aperti nel candore notturno dell’inverno e suscitato dagli effetti del magico irradiamento della luna sulle bianche coltri è spontaneamente evocatore dello spazio nevoso: uno spazio misterioso, denso e carico di significati, che cela come l’ombra l’invisibile, suggerendo una seconda fuggevole dimensione della realtà che sarà bene indagare. Un duplice manto di luce e di buio, un manto di sepoltura, lega la neve all’ombra e riconduce alle alterità dell’oltretomba e del sonno letargico della natura dormiente, ma non solo. Altre ragioni rinsaldano quest’identificazione, quali per esempio il suo stesso ciclo vitale. Bianca è la morte, bianco il sudario e bianco il fantasma: tuttavia posandosi e rinascendo al suolo la neve vive, inalando e traspirando l’aria da cui è venuta nei respiri delle sue porosità, e infine muore, esalando il suo spirito in un gelido e rigido rigor mortis di ghiaccio, sempre più annacquato e liquido, quando decide di sciogliersi come un cadavere. Mistico emblema delle nozze fra cielo e terra, la neve realizza una fenomenologia d’inversione cromatica dell’alto e del basso, con la terra che sublimata dal cielo si trasforma da nera in bianca e stupisce ancora per la complessità del suo meccanismo simbolico. Come cristallo di ghiaccio, serba l’essenza dell’acqua che custodisce, ma cadendo dall’alto e sedimentando i suoi strati assume l’aspetto e la funzione intima, l’abbiamo appena detto, di terra e di cielo capovolto, le cui nuvole diventano scintillio di suolo. Il bianco nevoso guadagna così le dimensioni dell’aria, della terra e dell’acqua e per lo splendore radiante e riflesso della sua luce, quella del fuoco. Possedendo copiosamente i quattro elementi classici della cosmogonia, questo bianco è un vero e proprio universo totalizzante, calato in un paesaggio di lentezza e di vuoto che si presenta appena creato, poco nitido e insieme purificatore e fecondo, accecante e opaco, di un effimero che scaccia contorni, orizzonti, confini. Se la luce ariosa è il verbo parlante di Dio, la neve è il suo silenzio terrestre, lunare e riflesso, rievocatore di una vibrazione bianca in un tempo sacro di creazione. Tuttavia questo mondo generato ed emerso dalle acque si sospende e stalla nel gelo solido e luminescente di laghi rovesciati fatti di neve, i cui riempimenti non premono all’ingiù, in bacini o in cavità carsiche, ma si affardellano all’insù, sui loro piani riproiettati al contrario, dove accumulando si difendono e dissetano la terra senza sommergerla. Le profonde concavità liquide si trasformano in dossi e gonfiori schiettamente superficiali e terrestri e la pioggia, in addensamenti su pietre e rami, dove attecchisce una luce bianca che non cala dall’alto, ma è anch’essa soggetta a inversione, perché s’illumina sempre più nello sprofondare del sottosuolo nevoso , come le fosforescenze degli abissi marini. E’ vera luce del giorno, più abbagliante del pallido chiarore di un’aria che si perde in foschia. E’ luce che acquista al tramonto valori gessosi. Come il gesso sulla lavagna, la neve nella notte non si limita a patinare l’oscurità, ma vi entra con un chiarore che s’illumina di mondi, sposando grafismo e luminismo, perfino nel buio più totale. Di giorno, le masse della nevicata invadono la vista e agiscono come un immenso occhio bianco su di essa, ferendola e disorientandone la focalità. La neve riesce a introdurre di sbieco i candori della distanza nella messa a fuoco ravvicinata di ciò che si sta guardando da presso. Lontananza e vicinanza si fondono di un bianco uguale che entra comunque nell’occhio, risucchiando l’intera massa nevosa del paesaggio. L’osservazione di un qualcosa, diventa l’osservazione del tutto, ma lo scenario finale non si modifica significativamente, nonostante la connessione tra particolare e generale, tra vicino e lontano. Lo spazio nevoso è soggetto ai contrasti di una doppia deriva ottica, d’ingrandimento estensivo e di riduzione concentrata dello spazio, entrambe dovute all’effetto di alterazione della profondità di campo da parte del bianco. La prima, consiste nell’omogeneità di una campitura nivea che amplia un paesaggio mancante delle partiture cromatiche orizzontali, cancellate, e di quelle ondulatorie verticali, ammorbidite, la seconda, di segno opposto, che contrae lo spazio, grazie ai tagli operati da uno sguardo che letteralmente coglie alfa e omega, scivolando sul brillio nevoso. Il collegamento al volo di punti d’innevamento anonimi e anche distanti, non impegna l’occhio nelle pause d’individuazione dei cromotopi, ossia dei luoghi / colore che contrassegnano la composizione di un paesaggio non ammantato, ma sepolto e ormai invisibile. Siamo dunque privi dell’identificazione della distanza percorsa dalla nostra visione e dell’intuizione del tempo necessario a coprirla attraverso un reale trasferimento fisico. Slittiamo su di uno spazio corto e breve, dominatori di multiple e virtuali bilocazioni, come i santi o come le ombre che ritornano… per evidenziare nuovi punti di contatto con la neve. L’annullamento delle distanze, l’inglobamento oculare del generale nel particolare, lo sfalsamento dei piani del suolo, il congelamento sonoro, l’impedimento del movimento, l’ossificazione psichica d’impressioni permanenti ed essenziali in attimi di un’acutezza che non scorre in flussi di pensieri ed emozioni, ma diventa imprinting, la cancellazione della pelle antropica del paesaggio, sono i segni di una nostra morte rituale durante l’inverno e della cecità del bianco, che si esprime nel segno della massima luce, annegando i colori e fondendoli nell’abbacinante istante di un tempo sospeso. E mentre il giardino torna a essere neve e in quanto neve, paesaggio, gli spazi domestici, non più tetto, rimessa, legnaia, sono anch’essi parte della glaciazione di un universo nuovo e più antico, che avvolge i luoghi, e divengono partecipi della sua essenza in una metamorfosi di sottrazione e rinnovamento. L’epifania archeologica della neve cancella, appena fuori casa, la soglia di proiezione del nostro io verso l’esterno del mondo, mutando ogni cosa in detriti e vestigia sepolte, che una volta ci appartennero e in cui ci riconoscemmo. Siamo così avulsi e immedesimati in questa perdita da essere doppiamente spiriti in pena, accompagnando al disappunto l’osservazione emotiva di passi tracciati come una semina di tanti “dov’ero”, istantaneamente sprofondati, allargati e segnati dall’oscurità dei calchi geologici, in un candore che ormai è efflorescenza salina di una pietrificazione millenaria. Giunti a questo punto, vaghiamo turbati all’intorno, consapevoli di essere inconsistenti fantasmi colti da una morte antica che ci colse improvvisa e che rifiutammo. Vorremmo gridare, per l’estinzione di massa del nostro piccolo mondo di affetti precipitati in un altro mondo, ma suoni attutiti come un sussurro, crocchianti e secchi, simili a scoppi di bolle, sottolineano un silenzio di tomba che ci ghiaccia e ci conforta insieme. Pervasi dalla luminescenza di quel bianco, lo sappiamo ora spirito del luogo, custode dei segreti auspici di antichi segni d’ombra, di allineamenti d’astri e del verso orientante dei venti.


L’infinito sul bordo di una tazza

di Eleonora Frattarolo


In una Natura morta del 1957 (1) un’ampolla, una bottiglia a sezione quadrata e una tazza da latte sono le piccole cose che nella pia adesione all’immanenza della vita disvelano la vertigine di un intervallo sacro dove Giorgio Morandi, il loro autore, evoca in un sussurro il tempo e lo spazio di un ricordo e di un sogno. Uno sguardo turbato, un pennello errante accarezza i confini incerti e asimmetrici di queste forme accampate su di uno sfondo di grigi smossi magri e lisi. Una lingua soffice rosa aranciata tra le due bottiglie è il frammezzo che incardina la magnifica monotonia dei chiarori di bianchi appena rappresi come veli di nebbie. Più indietro, piccola sentinella, la tazza bianca dalle guance tonde dipinta dall’alto mostra una porzione del proprio interno, accogliente le nostre labbra e testimone delle nostre mani, che accarezzavano la superficie lucida, tiepida del calore del latte, quando al risveglio riemergevamo alla luce.

Qui un piccolo rettangolo di un bianco puro, un grumo perfetto di luce abbagliante, in centro appena sotto il perimetro del bordo, conduce verso lontananze indicibili, ben oltre la stanza dove potrebbe aver sede la fonte prima di quella stessa luce riflessa.

Nella apparente modestia della rappresentazione, nell’incavo di una tazza da latte, culla liscia di un bianco bambino, Morandi annida il varco candido che immette oltre le cose presenti, nel tempo dell’immaginazione e del ricordo che a queste stesse cose donano senso.

Un piccolo letto troppo corto è quello che in via Fondazza e a Grizzana contiene per il riposo il grande corpo di Morandi. Un letto da ragazzo per un pittore altissimo che vive circondato da cose minime con cui reinventa il mondo, bottiglie tonde dalle ombre a rettangolo, mazzetti di rose baciate dalla propria ombra, caraffe e vasi nuove torri nella

corona di una città, oggetti che si sciolgono in ectoplasmi mentre annegano nel bianco dei fogli di carta da acquerello. Brandelli di stoffe arrotolate come corolle di fiori, maioliche bianche e azzurre e scatoline gentili, barattoli in latta di Ovomaltina che Morandi calcina con un bianco spesso e opaco e li appronta per altre vite e per altre visioni.




Nota:


1) G. Morandi, Natura morta, 1957 (in L. Vitali, Morandi. Catalogo generale, Milano 1977-­‐1983, n. 1050

Io mescolo tutto *

di Maria Rita Bentini


Prima del corpo, il colore (1). Prima del rosso, il bianco. Il cerchio si chiude, infine, nella precisione della forma e, ancora, nel bianco.

Gina Pane, Azione sentimentale, 9 novembre 1973, Galleria Diaframma a Milano.

Nelle istantanee di Françoise Masson l'artista ha un aspetto minuto e gentile, e nella messa a fuoco lo spazio vuoto le si stringe intorno. Occupa la scena vestendo jeans bianchi, camicetta bianca, scarpe da tennis bianche ("era come se venisse dalla luna", ricorda un amico). La fotografia , "constat d'action", è una forbice che recide e decanta il fluire continuo del corpo nell'azione. Pronuncia l'ultima parola corporale di quanto detto per esteso in un tempo e un luogo consumato per sempre, così da offrire agli occhi reliquie, più che residui: con gesti forti e sospesi, intarsiando scacchiere, l'artista compone l'immagine delle immagini.

Rose rosse sul candido monocromo degli abiti e, in controcanto, rose bianche sul bianco; braccia che si chiudono e poi si aprono. Dolore: le spine di rosa confitte nell'avambraccio sinistro, in sequenza come grani di rosario , o alberi sugli argini, in pianura. Sul palmo della mano una lama sottile incide, sfiorando la pelle, l'effigie di una rosa.

Con rigore, cura attenta dei dettagli e concentrata selezione, il movimento teso dell'action si allontana, condensando la sua forza nell'immagine – colore. Non è il rosso.

Graffiato dalle ferite, il bianco non si contrae nè retrocede. Rimbalza piuttosto e, dilagando nella pagina, in sottofondo abbagliante , si trasforma in partitura. Ospita l'altro, un corpo fragile, leso perchè vivo. Vulnerabile e ferito per incrinare un altro corpo, quello plurale, chiuso e anestetizzato, cui le individualità che compongono il suo pubblico appartengono, ignare forse.

Un foglio bianco era stato l'oggetto in campo per la prima azione di Gina Pane, Blessure théorique (1970), tre fotografie: una lametta taglia con rapida esattezza un foglio di carta, un foglio posto a terra, un polpastrello, alludendo con ciò alla scrittura, alla superficie della terra, alla pelle. Simbolicamente allora (non ancora carnalmente) il taglio "apre" e intacca la distanza tra l’io e il mondo, tra il sé e gli altri.

Poco dopo il latte, quando l'e blanche si unisce nel calore della bocca al rosso sangue delle ferite. Mater purissima, Mater castissima, Mater inviolata, Turris ebùrnea, recitano le invocazioni rivolte a tutt'altra Donna, e create per altri riti.

Tra le opere estreme dell'artista i mantelli, le vesti dei santi e dei martiri, bozzoli di pura geometria entro cui i corpi fisici sfiorano l'assenza. Chirurgicamente divisi, appesi come sudari. Non avvolgono più, con andamenti lievi , le anatomie risorte che si affacciano vittoriose sul sepolcro ormai vuoto, nei dipinti antichi.

Da un lato la trasparenza del vetro, la luce assoluta, la parola, dall'altro il colore. "Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. E' la giovinezza del nulla, o meglio un nulla prima dell'origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava nel tempo bianco dell'era glaciale" scriveva Kandinski con assunti che l'artista aveva da tempo distillati e trasgrediti.

Avviene allora l'ultimo passaggio da un corpo all'altro, un dono, una spartizione. Il manteau de Saint Martin pour pauvre et riche (1986-1987), con un gesto d'amore, unisce in sè la povertà del feltro con la ricchezza della luce. La materia si confonde, laica, con la sua trasfigurazione.

Appunto, mischiando tutto.


Note:

*Il 30 ottobre 1976, alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna, Gina Pane eseguiva un'azione intitolata Io mescolo tutto. In uno spazio rettangolare bianco due modelli reali, uno maschio e l'altro femmina, si lanciano una pallina "funzionando quasi da metronomo vivente". L'artista vestita di bianco, con pantaloni e scarpe da tennis entra e si siede in uno sgabello da bar. Ha gli occhi coperti da una mascherina, si dondola avanti e indietro, sembra perdere l'equilibrio, cadere. Chi registra l'azione con la cinepresa e la macchina fotografica invade lo spazio dell'azione. Gina Pane si dirige verso un angolo del muro dove è appoggiata una lastra quasi invisibile di vetro, le luci si spengono e si sente il rumore del vetro che cade a pezzi. Le luci si riaccendono, l'artista è a terra in posizione fetale, si alza, si dirige verso un angolo della stanza e comincia a giocare con un gioco infantile, tipo Lego, posato sul pavimento. Prende una scheggia di vetro e si incide l'avambraccio. La ferita disegnata segue la traccia delle forme che compongono il gioco, a terra.(L.Vergine, Gina Pane, la cocaina e Fra Angelico, in rivista Bologna, 1976, pp. 33-34, http://www.artslab.com/data/img/pdf/025_30-34.pdf)


1. Gina Pane (Biarritz, 1939- Paris ,1990) comincia il suo percorso dalla pittura all’Ecole nationale supérieure des beaux-arts a Parigi dal 1961 al 1966, poi al l’Atelier d’art sacré di Edmée Larnaudie (tra 1961-1963) , mentre dal 1975 al 1990 insegna pittura all'Ecole de Beaux Artes di Le Mans. In contemporanea, nel 1978, crea un atelier di performance al Centre Georges Pompidou. Per il ruolo della pittura e del colore, lè ricca di materiali la mostra che si è da poco tenuta al Mart di Rovereto e il volume-catalogo, Gina Pane (1939-1990). È per amore vostro: l'altro, a cura di Sophie Duplaix con la collaborazione di Anne Marchand, Actes-Sud, Arles 2012. Nei suoi scritti anche la composizione della pagina è significativa: attribuisce un certo valore allo spazio, o ritorna alla linea; di tanto in tanto si ritrova una sola frase su una pagina interamente bianca, cfr. Gina Pane, Lettre à un(e) inconnu(e), Paris 2004, edizioni ENSBA (Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts), collection Ecrits d’artistes, testi raccolti da Blandine Chavanne et Anne Marchand, con la collaborazione di Julia Hountou.











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Film Bianco. Immersioni oniriche ed esperienza cinematografica

di Marco Bertozzi


In una mostra sull’abbagliante stupore del guardare, il bianco al cinema mi ricorda l’esperienza estetica del risveglio. Del duplice risveglio. Da un lato quello della visione, del film che sta finendo e dei sottotitoli che scorrono sulla luce accesa in sala, sempre inopportuna, sempre troppo presto. Quel piacere sonnolento rivendicato da Roland Barhes in Uscendo dal cinema, nella riacquisizione del corpo dopo lo stato ipnotico della visione. Un erotismo moderno, che ci accompagna nel buio della notte metropolitana, lasciandoci soli, a riflettere su quelle ombre baluginanti.

Dall’altro il risveglio del mattino, dopo l’esperienza onirica, in cui la luce lattiginosa del giorno entra nella stanza e ci inonda col suo principio di realtà. La figura è quella della dissolvenza incrociata, quell’obbligo a riconoscere le rigide geometrie del mondo mentre si dirada la promessa di un vento che sparigli ancora i nostri sguardi. Nella sudorazione di un senso languido, non ancora espresso, subito bloccato dalla presunta chiarezza della luce diurna (luce che, paradossalmente, ammanta di opaco).

In una esposizione sulla perdita e gli abbandoni - e sulle immagini che affiorano dalla memoria – questi diversi momenti del risveglio hanno un luogo d’incontro nell’addormentarsi al cinema. Non so bene come possa succedere: motivi gastrici, stanchezza serale - forse noie abissali? - fattostà che mi accade sempre più spesso. Di solito, al risveglio, oltre a una piccola vergogna, ho l’impressione di avere assistito a un film profondo ed elegante. Sovrappongo le due esperienze – quella del sogno e quella cinematografica – in un terzo tempo onirico, in cui resti psichici e immagini perdute montano visioni stralunate. Il farsi nuvola di questa esperienza mette alla prova il mio discernimento e scandisce un ritmo pausato, quasi ozioso, nella costruzione di un senso rivisitato.

Il fatto che l’opera – come la nuvola – cambi continuamente sotto/dentro le mie palpebre stanche, evoca alcune considerazione di François Jullien, in La grande image n’a pas de forme. Siamo fra turbolenze visive suscettibili di accogliere, proprio perché instabili, qualsiasi forma. Jullien parla della pittura cinese, della logica respiratoria di forme che si sfaldano nei loro vapori, in perenne modificazione atmosferica. Caratteristiche evidenziate sin dal supporto del rotolo, in carta o seta, stropicciato per ottenere una specie di marmorizzazione abitata da un rapporto dialettico con la figura. Come la pellicola consunta, segnata da graffi, decadimenti e mirabili imperfezioni. Ecco, lontano delle imperanti mitologie dell’alta definizione, dai proclami del tutto a fuoco, del nitido, del ben definito, in questa lattea catalessi del cinema vivo, alcune tensioni della materia, la sua esplosione in onde e in astratti puntinii luminosi. Nulla a che fare con la storia “chiara” che il film sta tentando di raccontarmi.

Un percorso di messa a giorno che è anche di messa a distanza e mi riporta, in uno scavo archeologico, ad altri schermi bianchi. In un torrione della Rocca Sanvitale, a pochi passi da un episodio della metamorfosi di Ovidio, sosto qualche minuto davanti a un lindo tappetino posato su un tavolaccio di legno. Sono al buio e osservo per la prima volta le immagini della camera oscura di Fontanellato. Attraverso un foro praticato nel torrione della rocca, alla sommità di una tramoggia lignea ancorata alle feritoie del bastione, gli scenari di Piazza Matteotti e delle vie Luigi e Jacopo Sanvitale si proiettano davanti ai miei occhi. Sogno o son desto? Intravedo un gruppo di ragazzi rincorrersi, un’automobile penetrare l’isola pedonale attorno alla fortezza, le fronde degli alberi muoversi sui prospetti sbrecciati di un portico… Nessun dispositivo moderno origina queste visioni. Strano che qualcosa si muova in questo buio silenzio: oggi non mi abbandona l’idea che quelle immagini fossero solo un inganno ipertecnologico. Oppure mi fossi addormentato, ancora una volta, fra i lattiginosi spiragli luminosi della Rocca di Fontanellato.

sabato 3 novembre 2012

Oscenità, Narcisismo, Desiderio

di Pier Marco Turchetti


Ciò che tende al bianco va verso la trasparenza, induce alla nudità, fino ad imporre l’assolutezza dell’Oggetto e la sua estasi anonima. Il bianco non contiene nulla, non sa contenere, anzi, nient’altro che non sia autoreferenzialità di superficie. La sua caratteristica oscenità fa in modo che il distacco assuma il tenore di un’eleganza neutrale e che la vicinanza diventi un gioco di riflessi bloccati. La nostra interpretazione psico-sociologica è dunque ben lontano dal consegnarsi al bianco shakespearano che suscita vergogna e rigetto in Lady Macbeth: "My hands are of your color, but I shame/ To wear a heart so white". Ed è altrettanto distante dal rimando a quell'uguaglianza fittizia e perciò negata a Karol Karol, protagonista di Film Bianco di K. Kieslowski.

Dove “c’è” bianco sappiamo di una mancanza; dove “c’è” nero sentiamo una latenza. Ed è per questo che il nero è pieno di figure, carico di rimandi, ribollente di oggetti a venire, mentre il bianco è vuoto di figure, portatore di segni, essendo esso stesso Oggetto Assoluto come valore segnico di visività. Quale che sia la gradazione di bianco non possiamo attenderci altro se non un minimo di profondità superiore alla superficie, tale per cui sia possibile una interruzione significante della superficie. Come dire che ogni scrittura si pensa in bianco.

Nel suo romanzo-lipogramma La disparition, Georges Perec esplica alla lettera ed in maniera sistematica il senso di mancanza di fondo della scrittura come scrittura della superficie, i cui segni nerastri cercano di colmare lo spazio bianco dell’oggetto mancante, che è persona scomparsa ed insieme lettera mancante, la “e”. Questa sparizione può, senza dubbio, essere letta come un elogio divertito e ludico dei giochi di superficie significanti o, se si vuole, come una festa del segno, nella quale la profondità della ricerca fruttuosa (detective story) viene totalmente ridicolizzata. Perec, al testo Voyelles di Rimbaud, sostituisce pertanto un suo componimento deformato dal titolo Vocalisations, anch’esso privo della vocale “e”, in cui mostra come lo spazio bianco funga da vuota casella di gioco di una scacchiera. L’effetto provocato è, non soltanto, una risemantizzazione del sonetto di Rimbaud, ma una rimodulazione del simbolismo coloristico delle vocali. In Rimbaud si legge: “À noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu”; Perec rimodula in: “À noir (Un blanc), I roux, U safran, O azur”.

Volendo riprendere la metaforica di Blumenberg, la "differenza di fondo" tra fondo coltivabile e fondo edificabile, consisterebbe anche nella differenza tra una fedeltà alla profondità e un tradimento della profondità. L’edificare, difatti, comporta il nascondimento del fondo su cui si costruisce. Ci si dimentica del fondo, lo si tradisce, lo si imbianca. L’idea greca, legata a Phanes (colui che si manifesta rifulgendo), simbolo dell’espressione, per cui il mondo delle cose è il sogno di un dio, e, perciò, il velame di un’altra vita, deve contare sulla seduzione del nero, non certo sull’oscenità del bianco, per la quale “nulla sta nascosto nel profondo”; allo splendore di ciò che sta nascosto, tanto caro ad un Eraclito e a un Democrito, la scrittura del bianco non rimanda alla scrittura di un dio nascosto e salvifico ma luccica di per se stessa come Oggetto abbandonato tra gli oggetti.



Tutta la sovrabbondanza di vuoto senza fondo e di superfici riscrivibili, tali da inibire ogni ritorno al reale (anche nel senso di una terza fase del Post-Moderno mai avvenuta nè mai innescata) potrebbe ricondurci al mito di Narciso e a una sua nuova lettura. Che cosa resta di questo modello nel presente delle odierne relazioni umane? Che il mito di Narciso abbia bisogno di essere liberato dalla vulgata freudiana, o, anche dalla lettura di un articolo come Introduzione al narcisismo, al quale Freud ha consegnato in anticipo la sua seconda topica? Due annotazioni frammentarie del Canetti de La provincia dell’uomo ci introducono all’argomento:

“Mi voglio spezzare finché non sarò intero.”

“Se tu fossi solo ti divideresti in due, affinché una parte di te formasse l’altro”

Innanzitutto, due opposte inclinazioni: essere-intero , essere-l’altro. Essere-intero, sì, ma in nome di che cosa? Ed essere-l’altro, certo, ma in nome di chi? In ambedue i casi abbiamo a che fare con un divenir-molteplice dall’unità. Siamo uno ma il nostro essere uno è un "cattivo uno". Vogliamo la metamorfosi, in quanto siamo figli di Proteo e di Eraclito, non di Gorgo e di Parmenide. “Mi voglio spezzare finché non sarò intero”: chi vuole spezzarsi è già tutto d’un pezzo ma non accetta questo suo essere rispettabilmente monolitico. L’interezza, o meglio, l’intero sarà il risultato di un farsi molteplice, attraverso un cut-up dell’unità. Faccio abortire l’unità, la rendo rigogliosa, la spingo contro se stessa, per amore di un’altra unità, rimandata e superiore, di ordine superiore poiché rinviata alla fatica ricompositiva dei suoi frammenti. Io ordino a me stesso: "sii l’unione di 1 e -1, ovvero a + (-a)". L’ordine è: "perdi te stesso spezzandoti e sii un altro te stesso". La radice si sfalda in radicelle, direbbe il Deleuze di Millepiani. L’intero a cui mi preordino è più dell’unità: è il prodotto delle operazioni naturali e negative, così che esco da me stesso per non uscirne più, divento, appunto, intero. In nome di una più alta unità. Questa risonanza di unità soggettiva è del tipo ideale io=Io, e non del tipo fenomenico io=io. Uno/Molti/Intero. “Se tu fossi solo ti divideresti in due, affinché una parte di te formasse l’altro”: chi vuole essere l’altro è perché non sopporta la solitudine dell’unità. Allora si deve spezzare questa unità bianca, boicottare il suo imperialismo e frammentare le sue colonie. Ma non si ricava, in questo caso, una unità più alta, un Io da un io, ma un altro, anzi, “l’altro”. Rimbaud insegna: “Poiché Io è un Altro (…) E’ falso dire: io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa”. Ma Canetti si spinge oltre l’idea dell’estraneità dell’io da se stesso, oltre il complesso schizoide della grammatica dell’ “io penso”. “Una parte di te forma l’altro” significa: l’io è relazione in sé e per sé con l’altro, lo può presagire, produrre, contenere.

L’io è l’arte della relazione per inclusione. Farsi in due nel senso di fare la parte di due, poiché l’altro, fuori di me, è assente. L’ordine è il seguente: 2= 1 + ½. L’io, sempre sospeso tra le avversità dell’identità e la condanna all’estraneità, non ha bisogno di moltiplicarsi, gli basta, anzi, dividersi e fare due parti. Come dice Jean-Luc Nancy in La partizione delle voci “è la partizione a fare dono”. Il senso di questa partizione (che mostra come io possa includere l’altro come parte di me, nel caso di una totale solitudine e di un assoluto abbandono) disegna questa linea di fuga: Uno/Molti/Parte (d’Intero).

Il Narciso si divide in due nel desiderio di essere l’intero. Narciso è “infelice di non essere differente da se medesimo” (Ovidio). Quando scopre di non potersi separare da se stesso (Iste ego sum!) in lui grida il rimpianto di non poter amare qualcuno che sia distante da sé, non incluso come parte. Jean-Pierre Vernant (in Figure, idoli, maschere) scrive: “Lo specchio in cui Narciso si vede come se fosse un altro, in cui egli s’innamora di questo altro, senza dapprima riconoscervisi, e in cui lo ricerca nel desiderio di possederlo, traduce il paradosso, in noi, di uno slancio erotico che mira a riunirci a noi stessi, a ritrovare la nostra integralità, ma che può riuscirvi soltanto attraverso una deviazione. Amare significa tentare di riunirsi nell’altro.(…) Per ritrovarsi, unirsi a sé, piuttosto che semplicemente sdoppiarsi e proiettarsi – restando tuttavia “se stessi”- nella situazione che è quella di un determinato altro, occorre dapprima perdersi, abbandonarsi, farsi interamente altro da sé. Se faccio di me, come Narciso, un altro, un determinato altro, non posso né raggiungere né ritrovarmi. (…) Nell’altro che mi è prossimo, che mi è simile, che mi è di fronte, la figura che devo decifrare è quella dell’estremamente altro, del radicalmente lontano."

Narciso, questo “circuito chiuso”, come ebbe a scrivere Marshall McLuhan (in Gli strumenti del comunicare) è l’uomo solo che non vedendo l’altro lo trova in sé. Non vede l’altro perché è intorpidito (narcosis-Narciso). “Un’estensione di noi stessi determina in noi uno stato di torpore”. Fascino dell’estensione di se stessi, riprodotta in un materiale diverso da ciò di cui sono fatti. Per sopportare un sovrastimolo o uno shock il sistema nervoso centrale blocca la percezione e entra in una stato di torpore (mito di Narciso).

Il nostro Narciso, rappresentante dell'oscenità del bianco, si presenta come pura estensione, senza soluzione di continuità nè col l'assolutamente altro nè con l'immediatamente prossimo.

Il discredito, mal temperato e frettoloso, in cui è caduta la figura regolativa del Narciso, ha la coda lunga. Se si volesse prenderne un capo per tirarsi dietro i frammenti del volto narcisistico spezzato occorrerebbe risalire a quel cortocircuito dell’adattamento qual è la società desessualizzata in cui vige la burocrazia del sentimento, con i suoi bilanci di amore offeso e amore rivendicato. L’impotenza ad amare, ovvero l’incapacità cronica ad abbandonare il diritto-di-sentirsi-corrisposti, e, quindi, ad accettare l’excessus o lo sconfinamento dell’innamorato, e, con ciò, il rifiuto a-prioristico nel lasciarsi positivamente compromettere dall’assenza di specularità nella relazione amorosa, hanno condotto alla formazione di tipologie relazionali il cui carattere è eminentemente questo: a nessuno è dato di vivere la vita nel pieno delle proprie forze, qualora decida di vivere una vita-in-due. Ma tolto l’enigma, resta la sfinge. Con la rinuncia allo sviluppo delle proprie forze, mettendo in due, dando il segno del due a queste forze, l’impulso erotico si piega alla mera conservazione delle due monadi che liberate e divise nel sesso finiscono per desessualizzarlo (desesualizzazione bianca).

La divisione delle forze all’interno della coppia mira ad abbassare il potenziale energetico che dovrebbe legarli: il sesso, quello non compensativo e prescritto freudianamente "a dosi". Gli amanti bruciano le tappe del loro amore provandone l’aderenza al modello del “rinuncia tu a te stesso che io già rinunciai a me”. Il puzzo di ripetizione stantia di un modello che deve provare se stesso facendo a meno della variabile esplosiva in cui consistono i suoi rappresentanti ci coglie ogni qual volta ci avviciniamo all’altro per vedere se è minimamente giusto per noi, se mostra, nel primo quarto d’ora, i requisiti per congiungersi alla nostra metà spezzata (spezzata come una carta moneta). E’ lo schema della decadenza dell’Ideale dell’Io (e non dell’Io-Ideale), ripetuto e provato fino a che non esistono, anzi, non sussistono nient’altro che mezzi-uomini e mezze-donne, in nome di un rapporto di scambio bianco, in cui nessuno deve “sforare” nell’amare-di-più-dell’altro.

In opposizione a questo equilibrio desessualizzato, burocratico e narcotizzante sta l'equilibrio tragico del motto sofocleo "Eros anikate makan" (Eros invincibile nella lotta). Simone Weil ha condotto una profonda riflessione sul detto di Sofocle, all’interno dell’analisi del corpo come intermediario tra io e mondo. Secondo Weil, Eros (che ella definisce in termini di “desiderio”) è alcunché di intangibile, anzi, è ciò che vi è di massimamente reale. “Ogni desiderio è reale” e proprio attraverso l’indiscutibile realtà del desiderio “lo scrigno di Arpagone diventa secondo corpo”, ovvero prolungamento del corpo, bastone da cieco. L’immagine del “bastone da cieco” non è affatto un hapax negli scritti della Weil. Concetto chiave, come essa stessa dichiara, il “bastone da cieco” s’incarica, di fatto, di assumere una funzione concretante rispetto ai tre rapporti principali dell’essere umano: io-mondo, io-altro, io-società.

L’avverbio greco metaxù è il designatore ideale tra questi rapporti e il loro rilievo concreto. Il bastone da cieco, il tesoro di Arpagone, ma anche la lettura, segnatamente la prima lettura di un testo, rispetto alla seconda, sono del genere del metaxù, in quanto “intermediari”, “utensili”. In generale, tutte le “cose preziose”, dice la Weil, posseggono la natura dell’utensile. Ma, soltanto il desiderio (Eros) è, in sommo grado, “intermediario” e soltanto il desiderio produce intermediari tra l’Io e qualcosa d’altro da sé. Se si può affermare, con Sofocle, che “Eros (è) invincibile nella lotta” (Eros anikate makan) è perché esso presiede ad ogni rapporto, anche a quello che passa per la lotta e la contesa.

D’altronde, il corpo è in relazione con l’io come il bastone lo è per il cieco, così che “è la punta del bastone ad essere sensibile e non la mano”. Si rammenti che a fare da sfondo a questa analogia c’è il passo di Spinoza (Etica, LV, XXXIX) in cui è riportato: “Colui il cui corpo è atto a moltissime cose ha una mente la cui maggior parte è eterna”. Il corpo desiderante è il corpo erotico, il che equivale a sostenere anche che un corpo privo di desiderio non è semplicemente un corpo solo ma un corpo senza capacità di lottare e di uscire dalla lotta. Un corpo solo è un corpo discorde, mentre un corpo che desidera è aperto all’eternità o ne diviene accesso. Desiderare consiste dunque nella propensione a far entrare eternità in noi, sottoposti al tempo. Si tenga presente che Simone Weil considera l’uomo preso nel suo isolamento (San Giovanni della Croce), come l’unico essere in grado di identificarsi con l’universo. Questa identificazione tra uomo e universo rappresenta una sorta di salvezza terrestre per l’essere in quanto “l’identificazione con il tutto universale fa sì che l’uomo non sia sottoposto ad una qualche forza esterna. E qual è la forza esterna più temibile? Il tempo, che Weil definisce in maniera recisa come “la sola violenza”, puro asservimento, a causa del quale si viene condotti dove non si vuole andare (Giovanni, XXI, 18).

Alla base dell’interpretazione weiliana di “Eros anikate makan” deve scorgersi quello che, a ragion veduta, è da considerarsi un vero e proprio imperativo materiale: “Che l’anima dell’uomo si trasferisca in un’altra cosa: l’universo diventa la mia anima. Perciò deve diventare il mio secondo corpo” (concetto indù di atman). Eros, prima ancora di concedere all’io la propensione ad un rapporto con l’altro, con il mondo e con la società, stabilisce allora la condizione a priori per una relazione soggettiva tra io ed universo.

La traduzione di “Eros anikate makan”, nella versione di Hölderlin, suona così: “Geist der Liebe, dennoch Sieger/Immer, in Streit! Du (…)", ovvero “Spirito dell’amore, ciò nonostante sempre vincitore/ nel conflitto! Tu…” (Antigone, Dritter Akt, Zweite Szene, Chor).

La scelta di isolare in tre blocchi l’adagio sofocleo deve apparire fin da subito come forma di espressione tecnica di un principio di poetica. Nelle Note all’Antigone Hölderlin dichiara quella che chiama “legge calcolabile” dell’equilibrio tragico. Questa legge è espressa sotto forma di proporzione: “La regola, la legge calcolabile dell’Antigone, sta a quella dell’Edipo, come ≤ sta a ≥, sicché l’equilibrio inclina di più dal principio verso la fine che dalla fine verso il principio”. La tripartizione del verso sofocleo richiama direttamente a questo equilibrio, in cui il “ritmo delle rappresentazioni” (Hölderlin) è così disposto da far cadere la cesura più verso la fine, “perché è la fine che per così dire deve essere protetta contro l’inizio, e di conseguenza l’equilibrio inclinerà di più verso la fine” (Hölderlin). Ne ricaviamo le relazioni e lo schema che seguono:

“Geist der Liebe, dennoch Sieger” vale per c

“Immer, in Streit! Du” vale per b

“/” vale per a

così che risulti:

c ≤ ab

ovvero

Geist der Liebe, dennoch Sieger ≤ / Immer, In Streit!Du

Che la prima metà (c) sia più estesa della seconda (b) comporta il fatto che la rappresentazione di Eros come vincitore (Geist der Liebe, dennoch Sieger) sia intesa come uno scolio dialettico di difficile superamento. La virgola che separa “Geist der Liebe” da “dennoch Sieger”, e il “dennoch” stesso, hanno perciò la funzione di segnalare testualmente questa asperità logico-intuitiva.

La cesura (/) si trova spostata in avanti, in una sorta di differimento temporale tale che la fine (b) è tenuta lontana dall’inizio (a). Tenere lontana la fine significa qui voler proteggere Eros (=Geist der Liebe=Spirito dell’amore) da ogni contesa e da ogni conflitto (Streit).

Così Hölderlin, che traduce arditamente “Eros” con “Geist der Liebe”, esplicita la contradditorietà del motto sofocleo e, parimenti, assegna una supremazia ritmico-pausale, oltre che concettuale, ad “Eros” su “make”.

Il fatto che “lo spirito dell’amore “, qui invocato (Du), sia “sempre vincitore nel conflitto” è reso pensabile dal nonostante (dennoch). Dunque accade che l’amore non soccomba alla lotta che esso stesso va cercando e in cui esso stesso cade in quanto non è abbandonato al suo mero accadere, ma è guidato da un principium unificante e sintetico: il Geist. Attraverso lo spirito, l’amore non può essere internamente intaccato dal dissidio a cui partecipa, e, il dissidio, che pur accade e passa, si ritrova su un piano separato, spazialmente e temporalmente, rispetto a quello dell’amore. Eros vince il conflitto, differendolo, nell'equilibrio tragico.

venerdì 26 ottobre 2012

Le Nuvole

di Daniele Serafini 


Nel 1974 Luigi Ghirri decise di fotografare il cielo per un anno intero, una volta al giorno, rappresentando i 365 possibili cieli, caratterizzati dalla presenza frequente delle nuvole.
In quelle immagini, raccolte poi nel volume Infinito, Roma, 2001, i colori dominanti sono il blue, l'azzurro, il rosa, il grigio e il bianco. Quest'ultimo ricorre spesso, perché tra le nubi frequenti sono i cumuli, che appaiono come grumi o globuli, bianchissimi se colpiti dalla luce del sole, beneficiando di quell'effetto ottico che in fotometria si chiama luminanza.
La luminanza, che trovo essere parola misterica e poetica, indica il quoziente d'intensità luminosa della luce e la sua forza di abbagliamento, propria di ogni sorgente luminosa.
I cumuli si trovano a circa mille metri. A questa altitudine volava spesso Francesco Baracca, l'asso degli assi dell'aviazione italiana. Lo faceva, raggiungendo anche i tremila metri, mentre saliva col suo aereo e si predisponeva al combattimento, cercando di rendersi meno visibile all'avversario per coglierlo di sorpresa.
Nelle giornate in cui sole e nuvole si alternavano o si rincorrevano, Baracca aveva davanti a sé soprattutto il blue e il bianco. In questo scenario, non inseguiva solo la vittoria, ma anche un sogno di libertà, di solitudine e di bellezza.

“Alle prime luci, prima delle 5, avanti il sorgere del sole, siamo tutti
partiti in volo e ci siamo dispersi nel cielo verso i 2000 metri, e giravo
in tutte le direzioni scrutando l'orizzonte; e ho veduto lassù il sole
uscir dietro i monti ed uno spettacolo di luci meraviglioso”
(1)
Quel bianco delle nubi a volte lo avvolgeva e lo nascondeva, sprigionando tutta la sua forza simbolica (2), quell'impronta iniziatica che comprende in sé i temi del divino, vala dire della vicinanza agli dei, dell'illuminazione (ogni volta ci si cimenta con una rinnovata carica vitale), nonché quelli apoptropaici, perché si crede di aver acquisito la protezione delle potenze luminose contro quelle oscure.

Lassù Baracca si cimentava ogni volta col destino e si misurava con se stesso:

“[...] Né legge né dovere mi costrinsero alla guerra, / Non gli uomini politici,
non le folle plaudenti, / Un impulso di gioia solitario / Mi guidò a questa furia
tra le nuvole”.

così il poeta Yeats pensando al Maggiore Gregory in una splendida poesia dedicata a un aviatore irlandese caduto al fronte, ma con un sentire a mio avviso non estraneo al pilota romagnolo.

Oltre mezzo secolo prima, un lughese come Baracca, di nome Agostino Codazzi, rivoluzionario e cartografo, si era addentrato ad esplorare i territori della Colombia e del Venezuela, nel corso di quella sua vita avventurosa come un orizzonte in fuga (3).

Codazzi attraversa le foreste della Guyana, risale in canoa i corsi d'acqua impetuosi che la solcano, spingendosi fino alle sorgenti dell'Orinoco e del corso superiore del Rio Négro. E quando si misura con le vaste pianure dell'Apure o la regione montuosa di Ménda, oltre la folta vegetazione anche lui incontra le nuvole e le attraversa, sfiorando o forse venendo a contatto con quel turgore algido e bianco.
Procede lungo la vasta catena montuosa che si stacca dalla Cordigliera a sud delle province di Tunga e Tundama, estendendosi fino alla valle del fiume Magdalena.
Anche lui, come Baracca, incontra silenzio e solitudine; anche lui, con quello sguardo dall'alto, vede la realtà da un'altra dimensione e con altri occhi.

Baracca e Codazzi s'incontrano così, idealmente, nel vortice dei colori, nella purezza del bianco, nei bagliori della luminanza, e a me piace pensare che in quel candore di cumuli non carichi di pioggia, vi siano la stessa purezza e la medesima ansia della pagina bianca, quel foglio incontaminato che prima o poi dobbiamo percorrere e abitare ogni volta che intendiamo divenire esploratori di un nuovo mondo, di un nuovo sapere.


Note:
1. Francesco Baracca, Lettera alla famiglia, 8 aprile 1916
2. Claudio Widmann, Il simbolismo dei colori, Roma, 2000
3. Giorgio Antei, L'orizzonte in fuga. Viaggi e vicende di
Agostino Codazzi da Lugo, Firenze, 2012.

Invera. O del quasi bianco

di Massimiliano Fabbri




Un'altra lancia una pietra, ma questa, mentre ancora vola,
è vinta dall'armonia della voce e della lira, e gli cade davanti ai piedi,
quasi a implorare perdono per quel suo forsennato ardire.
(…)
Poi con le mani grondanti di sangue, contro lui si volsero,
accalcandosi come uccelli che avvistano un rapace notturno disorientato dalla luce;
e il poeta pareva il cervo condannato a morire all'alba nell'arena,
preda dei cani che l'assediano sul campo.
Ovidio, Metamorfosi


E bianca. Una parola diversa per dire latte è il secondo episodio di Selvatico Spore, progetto che tiene insieme arte contemporanea e collezioni presenti sul territorio e che si costruisce e delinea proprio a partire da questo incontro fertile tra museo e opere di nuovi autori. Un dialogo, tra il conflitto e il discorso amoroso, che rende la mostra necessaria, urgente anche, perché reazione e riflessione intorno ai luoghi che la ospitano; un movimento e crescita che assomiglia molto all'andamento e sviluppo vegetale, con radici e ramificazioni e gemme.

E bianca è una mostra sulla perdita e gli abbandoni, su quello che resta, sugli oggetti che ci sopravviveranno, su vuoti scenari, avamposti artici e deserti. Sulle ossa e scheletri sbiancati, sulle conchiglie e sassolini, sulle molliche e briciole del pane lasciate alle spalle. Sulle immagini che affiorano dalla memoria e poi sbiadiscono e vanno via risucchiate dimenticate cancellate, o che proiettiamo sullo spazio ancora vergine del cervello, sullo sconfinato del foglio o della tavola. Altare che aspetta il sacrificio e su cui ricomporre i pezzetti sparsi del cadavere.

Sullo stupore abbagliante del guardare, e sul suo impedimento a tratti invincibile. Sul candore tattile immacolato dei materiali, ora luccicanti scintillanti come cristalli o stelle, ora opachi polverosi volatili come calce e gesso. E contatto di mano con purezza levigata irreale astratta di marmo, carne. Opalina liquidità dell'occhio. Montagne di sale e terra spaccata arsa. Le crepe di tutta la pittura. Condutture verticali dell'acqua. Vapore. Brina. Scie di aereo. Certe ragnatele leggerissime che si vedono all'aperto.

Il bianco è la condizione porosa di partenza, l'innamoramento e la cicatrice, la suggestione e la ferita, l'umore che chiama e governa. Origine e confine al tempo stesso. Perimetro della mappa e campo. Area vuota, magnetica elettrica. Oblio. Un mondo, che fuori di esso non esiste nulla.

É il desiderio che muove, la palpitazione, ciò che sta al centro e irradia, e a cui convergono immagini pensieri sequenze, da cui partono e si allontanano processioni di cose vedute come in sogno. Fantasie. Fantasmi. Periferia indistinta.

Difficile dire cosa venga prima nel farsi della mostra, quale il primo nucleo, agglomerato o meccanismo, se le opere di alcuni autori e la possibilità felice di pensarle insieme (perché intuiti punti di contatto, similitudini e contrasti efficaci tra esse) o invece una geografia familiare fatta di spazi espositivi, raccolte e narrazioni contenute intrappolate custodite nei musei che accoglieranno il percorso espositivo.

È il bianco che permette l'incontro, il filo che collega annoda congiunge. Morbida matassa. Un territorio da esplorare, qualcosa che inizia vago incerto nebuloso. Cavità dolorosa. Luogo attraversato da immagini isolate, lontane distanti alla deriva.

Forse la costruzione della mostra assomiglia un po' all'abitare una casa e prenderne possesso, dove le immagini e le cose trovano, lentamente, la loro collocazione e relazione, per spostamenti, incastri e aggiustamenti. Tentativo, forma molteplice potenziale frammentata che aspira ad un'unità ed equilibrio. E se la casa in questione comprende qui tutte le architetture e ambienti coinvolti, ogni singolo museo rappresenta allora una stanza di questo edificio che assomiglia e funziona come un organismo e corpo.

Velieri fermi immobili nel mare, una canoa spettrale che solca un lago o un fiume di notte, bianco lunare, cartilagini, perfezione e varietà di vertebre, apparizioni misteriose di animali bianchi eleganti potenti: cavalli e cervi e lupi e mucche enormi pazienti. Figure bianco vestite (umiltà di abiti e paramenti). L'impronta lasciata dai libri e dai quadri. Armature e cavalieri inesistenti. Conigli con orecchie trasparenti alla luce, capillari. Capre pecore galline. Gruppi di oche che guardano immobili nella stessa direzione e poi si muovono e schiamazzano insieme all'improvviso. Barbagianni con le ali spiegate. Ventri molli. Grasso e strutto e burro. Sapone. Piume sparse. Penna perfetta di uccello, spina di pesce e venatura vegetale. Funghi. Alghe e piante marine fluorescenti. Meduse. Puntini di tutti i tipi. Vermi e lombrichi. Bava argentata. Schiuma. Spuma di mare. Saliva.

Bianchi evanescenti e impalpabili come nebbia o nuvola, materni come latte uova farina zucchero. Riso. Il ritorno a casa e il panorama sconosciuto, l'essenza ultima interna delle cose e il velo e sudario che le occulta e bagna e copre parzialmente lasciandone intuire a tratti le forme. Si sta come sospesi tra un bianco che acceca mangia corrode e uno che è rivelazione e carezza.

Che il bianco porta sempre con sé un tentativo di orientamento, reazione al labirinto assoluto, quello dove non abbiamo più coordinate, sperduti in uno spazio infinito, inesistente. Galleggianti come astronauti. Luogo incerto illimitato immenso da cui partire e a cui ritornano le cose, condizione estrema, superficie pura. Polvere e luce. Ancora ad inseguire bagliori intermittenti tra le foglie e le dita della mano.

Il bianco è il margine, l'estensione magica paurosa della mente, il limite imposto a cui si chiede di raccontare il mondo tutto o quasi, attraverso una visione contraddittoria, perché affidata ad un colore che spesso si associa all'assenza, al grado zero o tabula rasa, eppure capace di abbracciare l'intero spettro delle emozioni e percezioni. Che tiene la morte così come la visione angelica virginale, l'astrazione estrema raggiunta per via di levare e la carta geografica o la pagina che aspetta la scrittura, il primo segno coordinata; il freddo glaciale siderale, ghiaccio neve, e il caldo accogliente del nido e bambagia e lenzuola pulite profumate fresche. La carta stropicciata dentro le scatole delle scarpe e l'orrore del polistirolo. Il giglio dell'annuncio, un lieve scostarsi di tende e brezza. Capelli lunghi di vecchia, sciolti per essere pettinati.

Uno sguardo bambino a guida, tra rapimenti scoperte e catalogazione ossessiva autistica.

La prima frattura è data dalla struttura della mostra che si articola in sezioni seguendo una divisione in atti che scandisce il ritmo del percorso espositivo, quasi a mettere sul piatto un fallimentare tentativo enciclopedico di descrivere il mondo, di abbracciarlo tutto, manco si trattasse di una collana scientifica per bambini, di quelle che non si fanno più, positiviste, divise per categorie e argomenti ben chiari e nitidi e separabili con esattezza; con temi e fuochi messi in ordine e in fila.

Questo uno dei primi ostacoli con cui l'impianto della mostra gioca e con cui fare i conti: la difficoltà e impossibilità forse, di affidare questo racconto al bianco, al più bruciante respingente accecante dei colori, ad un estremo invitante, inafferrabile e sfuggente. Una didattica smentita su cui si costruisce la narrazione.

Ora luce morbida che filtra svela disegna, il bianco è spesso associato a quiete leggerezza candore pulizia, ora visione che si affianca ed accompagna alla morte, ad una dimensione di abbandono e silenzio; nulla densissimo, a cui tendere e da cui ripartire.

Il colore perduto della statuaria classica, la luce che slava e sbiadisce – si pensi al suo effetto su fotografie e disegni, o sui panni stesi al sole – il bianco dei monti, le cave e le rocce, e poi strane erbe ritorte pallide cresciute al buio, sotto. Il bianco è la distanza; intoccabile attrazione. Aristocrazia della visione, religiosità di sguardo, spirituale rinuncia. Ascesi mistica.

E poi il bianco moderno e igienico, asettico osceno violento schiacciante che è degli ospedali e delle banche, dei negozi alla moda, degli obitori e delle gallerie d'arte, del bisogno dell'uomo di ordine, controllo e dominio sull'altro; così lontano dallo stupore, delicatezza e forza che invece il bianco in natura porta con sé.

Anch'esso, come il nero del resto, capace di contenere gli opposti e di farli toccare, di chiudere il cerchio e di compiere infine un giro completo dello spettro. Se A nera. Una lezione di tenebra riguardava promesse e cose a venire, possibilità fertili e futuro, E bianca è un allora un discorso intorno agli addii e abbandoni. Il bianco come della perdita. Una mancanza. Aridità struggente, distesa che ha a che fare con il passato, con qualcosa che non è più, come svuotato. O che non è ancora, e a cui crediamo.

E che rilancia la domanda rimasta aperta con la mostra nera, e ad essa si ricongiunge e la completa rappresentandone l'altra faccia o controcanto. La ricerca drammatica di una profondità primitiva, violenta purezza del guardare, verità di forma e immagine spinta sino alla sua negazione.

Una specie di ovattamento che ostacola e al contempo arricchisce la visione, un'addensante e tremante prospettiva aerea che avvolge. Uno schermo. Luce tagliente scintillante come lama che trafigge e fa il bianco vibrante, capace di azzerare e abbagliare, di far esplodere e disgregare i contorni. Smaterializzante e pulviscolare. Luce spolpante. Un'impronta di ciò che era, il contrario di un'ombra. Più simile ad un fossile probabilmente. Una mostra di cose in fin dei conti. E ricordi di visione. Immagini da un mondo perduto o mummificato.

Ma se restiamo fedeli alla divisione per sezioni e torniamo ad esse nel tentativo di mettere a fuoco e precisare l'architettura e disegno della mostra, noteremo come queste siano molto diverse tra loro, ciascuna caratterizzata e differente per un proprio specifico discorso, costruzione e temperatura. Eppure, a guardare bene, le tracce finiscono per sfumarsi l'una nell'altra e avere talvolta punti di contatto, quasi a sovrapporsi e confondersi nei confini; e al loro interno alcuni artisti che sembrano anticipare il tema successivo o che vanno a riallacciarsi e richiamare ciò che si è veduto in precedenza, quasi in un dejavù disorientante e circolare. A contribuire al flusso, forse a confondere le carte e slittare scivolare in un'incertezza di visione e pensiero che fanno il tempo esploso e lo spazio con vertigine concentrica. Abisso senza profondità.

Il percorso si snoda su sei comuni e rispettivi spazi espositivi e musei: da ciascuno di questi affiorano temi che caratterizzano la singola sezione e che finiscono col richiamare per affinità, empaticamente, il lavoro degli artisti. Musei che condensano e trattengono vocazioni e identità dei luoghi; raccolte e spazi espositivi che forniscono tracce e spunti da cui muove il progetto, che suggeriscono percorsi e traiettorie a tessere una trama che fa del museo stesso stimolo e ambito di produzione e ricerca. Uno scambio anche perché nuovi e altri punti di vista si depositano e intrecciano alle collezioni in un'ulteriore stratificazione di significati e immagini. Risonanze.

Un disegno ragnatela di corrispondenze. Talvolta vere e proprie intrusioni ed occupazioni temporanee nelle quali alcuni autori dialogano direttamente con le densità delle collezioni.

E se il museo è il bianco e il territorio ancora da scrivere, questa mostra plurale è allora il disegno che aspira ad essere mappa, tentativo di mettere le cose in relazione e stabilire rapporti, precari, di tracciare nuove linee che triangolano punti sparsi nello spazio devastante. Una costellazione, una collana di lucine e denti e perle, un catalogo infinito. Un museo dell'innocenza.

Sogni e memorie alle Cappuccine di Bagnacavallo, unica pinacoteca tra i musei coinvolti ad ospitare una galleria che dal medioevo arriva sino al novecento, è della pittura e a questo linguaggio è affidata l'apertura e il racconto di questa sezione e mostra, sequenza di immagini e finestre, processione di lampi e bagliori da un mondo perduto. Se la fotografia è sempre la scena di un delitto che blocca congela uccide, la pittura apre invece e scardina e fa il tempo esploso, ci raggiunge e chiama da un'altra dimensione, offre uno spazio altro che ha sempre a che fare con il ricordo mobile e instabile di una visione. Ferita, smagliatura del tessuto che ci permette di entrare accedere ad una specie di realtà parallela, che non si dà facilmente e va come ascoltata. All'improvviso, talvolta, risucchiante distanza. Che la pittura aspetta e il movimento è il nostro e nostra la proiezione sul quadro.

Nei dipinti, nebbie e foschie e brume, intrecci fitti inestricabili di rami, boschi e foreste con radure e animali e uccelli in scenari incantati incorrotti irragiungibili quasi di fiaba, volti slavati e corrosi come vecchie fotografie, ingiallite seccate fragili, doppi e simulacri e maschere e sindoni e veroniche, fragili impronte che nascono già incomplete strappate mancanti amputate, vuoti panorami schiaccianti e improbabili e inadatti a qualsiasi presenza umana o corpo, scena del delitto o teatro di un'apparizione appena fuggita o che sarà, astrazioni biologiche, magmi e affioramenti, intuizioni incerte mobili di figure a cui aggrapparsi e riconoscersi, come succede con le forme delle nuvole, cose portate dall'acqua e ristagni, bianchi di folgore e materia a squarciare. Fotografie di animali impagliati che ci chiamano interrogano accusano e romantiche montagne sognate innevate, appunti e ricordi della bellezza del mondo come visto attraverso una lente appannata. Disegno metamorfosi che genera e apre ad incubi, fantasticherie e fantasmi, mondi possibili dove il bianco della carta cerca di opporre resistenza alla copertura del nero della grafite e carbone. E l'immagine in movimento che passa attraverso un commovente bagno fatto di rarefazione e rallentamento del tempo percezione e memoria. Sguardo distillato come nel ricordo di un sogno.

A Fusignano al San Rocco e Suffragio Geometrie e altre meraviglie della natura e crescita. Uno sguardo nostalgia sulla natura affiora in molte delle opere di questa mostra: una rappresentazione del regno vegetale che diventa, nella ripetizione mantra, cura e preghiera, filtrata da un fare artigianale lento a farne un diario dei giorni. Le materie, le tecniche e i modi di fare acquistano allora un significato particolare, domestico, dettano ritmo e cadenza - disegno cucito ceramica mosaico - quasi a intonare una litania perpetua, un canto delle ore oscillante tra due poli, uno cristallizzato in geometrie, dove il dato naturale sembra venire addomesticato e reso docile, l'altro fatto di andamenti più curvilinei e sensuali e procedenti per accumuli e sviluppi imprevedibili caotici. Onde e sciami e ventosità.

Le targhe devozionali e l'ex ospedale ottocentesco che le ospita ci parlano di un luogo di guarigione, e allora ecco la natura riparatrice, la terapia, prima madre a cui tornare, che accoglie e mangia, crudele e sotto attacco. Un timore. Da proteggere e difendere, con riti anche, e il cucire e un disegno decorativo ossessivo sono strategie e sortilegi per capovolgere il mondo, o salvarlo, per comprendere l'ordine segreto e la regola e numero che lo governa. Per raggiungere un equilibrio e quiete. Respiro che contempla morte e rinascita, tra ordine, sviluppo matematico e improvvise accelerazioni tumorali barocche. Griglie, strutture e sinuosità vegetali.

Una natura che pare a tratti impossibile, compromessa anche solo dal tentativo amoroso di tradurla, fino a farla diventare sterile artificiale decorativa attraverso la disciplina e astrazione della geometria; e un lieve accenno di disordine o errore a riprendersi gli spazi e minare il disegno, un'attesa di rivoluzione e sommovimento che scorre, sottopelle, dentro alle vene e nervature. Palpabile percezione di un rovesciamento prossimo, silenzioso incombente, stasi prima della crescita improvvisa tumultuosa incontrollabile caotica, con tuono e fragore di terremoto. A fianco, un fare bambino, a tratti ingenuo candido giocoso, con moltiplicazioni e morbidezze e sensi aperti ricettivi felici. E pesantezza di materia che viene alleviata e alleggerita come respiro. Verrebbe da dire anima...

Ad Alfonsine Innesti, in quello che non è solo un museo di guerra ma una raccolta di storie e genti che racconta del fronte sul fiume Senio e della distruzione avvenuta ai danni dei paesi affacciati; questa mostra parte da una piccola sezione che conserva un gruppo di oggetti lasciati indietro e abbandonati dopo il passaggio degli eserciti. Oggetti militari che gli abitanti hanno poi riutilizzato mettendo in pratica un atteggiamento in bilico tra la decontestualizzazione del ready-made e lo sguardo iconoclasta che cambia di significato alle cose, senza negarle del tutto, infischiandosene della loro funzione, per necessità certo, per felici intuizioni dettate dal bisogno e povertà, eppure resta sottotraccia qualcosa in più, un destino beffardo delle cose, un'amara ironia di fondo. E allora un elmetto nazista diventa un badile per raccogliere letame, una cassetta metallica contenente armi si trasforma in stufa, una griglia metallica per decolli su terreni fangosi dà il là ad una serie di cancelli visibili tuttora in Romagna.

Una poetica del riciclo e riutilizzo che non è distante dalla ricerca di molti artisti che operano veri e propri innesti a partire da un alfabeto frammentato di oggetti. Rifare mondi a partire da cose già esistenti, rinominarle con nuovi assemblaggi e relazioni inconsuete a risignificarle, spostarle e riportarle in vita. Talvolta congelate in una frigida ibernazione lattiginosa.

Oggetti contro natura forse; nature e parti di essa che diventano cose e oggetti e viceversa; armature e protesi, rifugi di fortuna precari, nuove antiche architetture abbandonate silenziose, sistemi organici morti. Diorami in miniatura dove ricreare il mondo e vita. Esperimenti di laboratorio. Un fiume che diventa segno e linea per nuove metafore del combattimento. Collezioni ipertrofiche, messaggi e riassunti del mondo da inviare nello spazio, e feticci.

Dall'attitudine vorace e bulimica di Varoli che trova raccoglie conserva reperti e chincaglierie (ancora una volta il collezionismo) muove la mostra di Cotignola: Archeologie. Tra il biancore lapideo glaciale del marmo e pietra, e quello osseo animale minerale cartilagineo di un bestiario bambino: fossili, impronte, corpi velati, superfici scheggiate sbrecciate, paesaggi intrappolati e misteriose città affioranti, fotografie da albori corrose e svanenti, e una scultura che si fa mappa, sito visto dall'alto, soglia e discorso sul tempo. Mondo scoperchiato da uno scavo, con luce che inonda rivela. Cera. Tessuti candidi, piacevoli al tatto, fatti con cotone buono. Altre ruvidità e imperfezioni di margini smunti frastagliati a contrastare levigatezze splendenti.

La mostra abbraccia e si estende a tutto il museo in un vero e proprio cortocircuito disseminato tra collezioni e opere contemporanee: vesciche preziose lucenti come alabastro e ambra, foglie e fotosintesi che raccolgono, impigliano e trattengono memorie di sguardi e affetti, dettagli e parti magiche simboliche di corpi, relitti e legni ammuffiti scrostati di barche arenate distrutte, ruggini, enigmatici oggetti senza più funzione condannati ormai al piedistallo o teca, quasi animali e scarti organici trasformati da follia visionaria di scienziato pazzo, costellazioni, sistemi e galassie calcaree, tragici corpi muti tra sonno e caduta, impronte dell'aria e calchi che trattengono le voci e i respiri, i pensieri e i battiti; divinità perdute disperse, eroiche visioni di statue e pezzi sparsi e immagini come raccolte salvate da un campo di battaglia immenso e tragico e senza tempo e fine, con la storia tutta dentro, e gli uomini e i fiori e gli amori e le sconfitte e una bellezza ancora possibile, lacerata in frantumi. Sguardo che si dimentica e abbandona, divorante divorato dalla storia dell'arte e dalla gamma insostenibile meravigliosa dei sentimenti dell'uomo, sepolto dal suo atlante sterminato e geologico di cose vedute.

A Lugo Esplorazioni e avventure. Anche se il museo non viene coinvolto direttamente, la figura eroica dell'aviatore Francesco Baracca aleggia, indica e traccia un possibile percorso a cui si affianca un altro fantasma di lughese illustre, quello di Agostino Codazzi cartografo e geografo e rivoluzionario. S'impone allora uno sguardo a volo d'uccello, un occhio belva che vede fruga ruba, una prospettiva aerea sulle cose; e poi la dimensione della scoperta e avventura, tra l'infimo e banale quotidiano e l'esotico improbabile sorprendente.

Indagine condotta principalmente dalla fotografia, linguaggio che, nonostante tutto, è ancora il mezzo più credibile a cui affidarsi per trafiggere e inchiodare la realtà, per rovesciarla e fare in modo di tornare a vederla. Per prolungare l'inganno e il racconto di mondi altri. Contro l'abitudine di un vedere morto che sa già tutto. E poi il disegno, sguardo immaginifico, tentativo assoluto originario di orientamento. Prima mappa, anche nel semplice segno nudo e scarabocchio analfabeta, anch'essi misura dello spazio e profondità e grammatica.

La trasparenza lucida instabile volatile dell'acetato, angoli affollati della città dove la scena e il tempo si fermano per un istante perfetto come a svelare in un capogiro specchiante e labirintico le intersezioni e gli equilibri tra le cose e le vite e i movimenti e le traiettorie del caso, infimi angoli abbandonati con erbe che crescono tra le crepe e distrazioni, gabbie reti griglie ringhiere, pali e fili e panni stesi ad asciugare e cavi dell'elettricità e telefono, saracinesche spigoli muri scrostati, stanze e camere spoglie, città souvenir portate altrove e liberate, quasi una surrealtà. Carte e libri, tavolozze di ghiaccio, neve e vapore, paesaggi silenziosi arenati, onde e derive. Diari di bordo e mappe cancellate coperte in nome della libertà o del fare da capo, ancora, bisognoso di distruggere.

Infine Massa Lombarda, Regni bambini, il tutto e niente dell'infanzia e la collezione Venturini, sorprendente raccolta fuori tempo massimo di naturalia e mirabilia; un accumulo simile a quello del fanciullo che riempie le sue tasche delle cose che trova e incontra nelle sue scorribande, un catalogo di possibilità e giochi, un abecedario del mondo.

E poi la pinacoteca a chiudere idealmente il cerchio con l'inizio di E bianca rappresentato da Bagnacavallo. Oltre alle raccolte questa sezione coinvolge anche il Centro giovani con una narrazione affidata a molteplici linguaggi che ci restituiscono un universo lieve e incantato, capace di affondi e inquietudini oscure: volti tanti a guardarci e sorprenderci, figli a popolare il mondo e compagni immaginari, trofei tra il delicato e grottesco, paesaggi e giardini perduti di un eden lontano, quasi magia, accumuli e intrichi e grovigli di legni ritorti e rami e ossa e morbide palle di lana e tessuto. Carta stropicciata. Fiabe tragiche. Ceramiche e porcellane raffinate perfette preziose, eleganza ingannevole, trabocchetto che nasconde e apre voragini di senso; un'ironia implacabile che si diverte a capovolgere devastare il mondo, per gioco o per noia. Per spostare limiti e confini. Per tornare finalmente al bianco che forse fa le cose nuove, o morte del tutto.