venerdì 26 ottobre 2012

Le Nuvole

di Daniele Serafini 


Nel 1974 Luigi Ghirri decise di fotografare il cielo per un anno intero, una volta al giorno, rappresentando i 365 possibili cieli, caratterizzati dalla presenza frequente delle nuvole.
In quelle immagini, raccolte poi nel volume Infinito, Roma, 2001, i colori dominanti sono il blue, l'azzurro, il rosa, il grigio e il bianco. Quest'ultimo ricorre spesso, perché tra le nubi frequenti sono i cumuli, che appaiono come grumi o globuli, bianchissimi se colpiti dalla luce del sole, beneficiando di quell'effetto ottico che in fotometria si chiama luminanza.
La luminanza, che trovo essere parola misterica e poetica, indica il quoziente d'intensità luminosa della luce e la sua forza di abbagliamento, propria di ogni sorgente luminosa.
I cumuli si trovano a circa mille metri. A questa altitudine volava spesso Francesco Baracca, l'asso degli assi dell'aviazione italiana. Lo faceva, raggiungendo anche i tremila metri, mentre saliva col suo aereo e si predisponeva al combattimento, cercando di rendersi meno visibile all'avversario per coglierlo di sorpresa.
Nelle giornate in cui sole e nuvole si alternavano o si rincorrevano, Baracca aveva davanti a sé soprattutto il blue e il bianco. In questo scenario, non inseguiva solo la vittoria, ma anche un sogno di libertà, di solitudine e di bellezza.

“Alle prime luci, prima delle 5, avanti il sorgere del sole, siamo tutti
partiti in volo e ci siamo dispersi nel cielo verso i 2000 metri, e giravo
in tutte le direzioni scrutando l'orizzonte; e ho veduto lassù il sole
uscir dietro i monti ed uno spettacolo di luci meraviglioso”
(1)
Quel bianco delle nubi a volte lo avvolgeva e lo nascondeva, sprigionando tutta la sua forza simbolica (2), quell'impronta iniziatica che comprende in sé i temi del divino, vala dire della vicinanza agli dei, dell'illuminazione (ogni volta ci si cimenta con una rinnovata carica vitale), nonché quelli apoptropaici, perché si crede di aver acquisito la protezione delle potenze luminose contro quelle oscure.

Lassù Baracca si cimentava ogni volta col destino e si misurava con se stesso:

“[...] Né legge né dovere mi costrinsero alla guerra, / Non gli uomini politici,
non le folle plaudenti, / Un impulso di gioia solitario / Mi guidò a questa furia
tra le nuvole”.

così il poeta Yeats pensando al Maggiore Gregory in una splendida poesia dedicata a un aviatore irlandese caduto al fronte, ma con un sentire a mio avviso non estraneo al pilota romagnolo.

Oltre mezzo secolo prima, un lughese come Baracca, di nome Agostino Codazzi, rivoluzionario e cartografo, si era addentrato ad esplorare i territori della Colombia e del Venezuela, nel corso di quella sua vita avventurosa come un orizzonte in fuga (3).

Codazzi attraversa le foreste della Guyana, risale in canoa i corsi d'acqua impetuosi che la solcano, spingendosi fino alle sorgenti dell'Orinoco e del corso superiore del Rio Négro. E quando si misura con le vaste pianure dell'Apure o la regione montuosa di Ménda, oltre la folta vegetazione anche lui incontra le nuvole e le attraversa, sfiorando o forse venendo a contatto con quel turgore algido e bianco.
Procede lungo la vasta catena montuosa che si stacca dalla Cordigliera a sud delle province di Tunga e Tundama, estendendosi fino alla valle del fiume Magdalena.
Anche lui, come Baracca, incontra silenzio e solitudine; anche lui, con quello sguardo dall'alto, vede la realtà da un'altra dimensione e con altri occhi.

Baracca e Codazzi s'incontrano così, idealmente, nel vortice dei colori, nella purezza del bianco, nei bagliori della luminanza, e a me piace pensare che in quel candore di cumuli non carichi di pioggia, vi siano la stessa purezza e la medesima ansia della pagina bianca, quel foglio incontaminato che prima o poi dobbiamo percorrere e abitare ogni volta che intendiamo divenire esploratori di un nuovo mondo, di un nuovo sapere.


Note:
1. Francesco Baracca, Lettera alla famiglia, 8 aprile 1916
2. Claudio Widmann, Il simbolismo dei colori, Roma, 2000
3. Giorgio Antei, L'orizzonte in fuga. Viaggi e vicende di
Agostino Codazzi da Lugo, Firenze, 2012.

Invera. O del quasi bianco

di Massimiliano Fabbri




Un'altra lancia una pietra, ma questa, mentre ancora vola,
è vinta dall'armonia della voce e della lira, e gli cade davanti ai piedi,
quasi a implorare perdono per quel suo forsennato ardire.
(…)
Poi con le mani grondanti di sangue, contro lui si volsero,
accalcandosi come uccelli che avvistano un rapace notturno disorientato dalla luce;
e il poeta pareva il cervo condannato a morire all'alba nell'arena,
preda dei cani che l'assediano sul campo.
Ovidio, Metamorfosi


E bianca. Una parola diversa per dire latte è il secondo episodio di Selvatico Spore, progetto che tiene insieme arte contemporanea e collezioni presenti sul territorio e che si costruisce e delinea proprio a partire da questo incontro fertile tra museo e opere di nuovi autori. Un dialogo, tra il conflitto e il discorso amoroso, che rende la mostra necessaria, urgente anche, perché reazione e riflessione intorno ai luoghi che la ospitano; un movimento e crescita che assomiglia molto all'andamento e sviluppo vegetale, con radici e ramificazioni e gemme.

E bianca è una mostra sulla perdita e gli abbandoni, su quello che resta, sugli oggetti che ci sopravviveranno, su vuoti scenari, avamposti artici e deserti. Sulle ossa e scheletri sbiancati, sulle conchiglie e sassolini, sulle molliche e briciole del pane lasciate alle spalle. Sulle immagini che affiorano dalla memoria e poi sbiadiscono e vanno via risucchiate dimenticate cancellate, o che proiettiamo sullo spazio ancora vergine del cervello, sullo sconfinato del foglio o della tavola. Altare che aspetta il sacrificio e su cui ricomporre i pezzetti sparsi del cadavere.

Sullo stupore abbagliante del guardare, e sul suo impedimento a tratti invincibile. Sul candore tattile immacolato dei materiali, ora luccicanti scintillanti come cristalli o stelle, ora opachi polverosi volatili come calce e gesso. E contatto di mano con purezza levigata irreale astratta di marmo, carne. Opalina liquidità dell'occhio. Montagne di sale e terra spaccata arsa. Le crepe di tutta la pittura. Condutture verticali dell'acqua. Vapore. Brina. Scie di aereo. Certe ragnatele leggerissime che si vedono all'aperto.

Il bianco è la condizione porosa di partenza, l'innamoramento e la cicatrice, la suggestione e la ferita, l'umore che chiama e governa. Origine e confine al tempo stesso. Perimetro della mappa e campo. Area vuota, magnetica elettrica. Oblio. Un mondo, che fuori di esso non esiste nulla.

É il desiderio che muove, la palpitazione, ciò che sta al centro e irradia, e a cui convergono immagini pensieri sequenze, da cui partono e si allontanano processioni di cose vedute come in sogno. Fantasie. Fantasmi. Periferia indistinta.

Difficile dire cosa venga prima nel farsi della mostra, quale il primo nucleo, agglomerato o meccanismo, se le opere di alcuni autori e la possibilità felice di pensarle insieme (perché intuiti punti di contatto, similitudini e contrasti efficaci tra esse) o invece una geografia familiare fatta di spazi espositivi, raccolte e narrazioni contenute intrappolate custodite nei musei che accoglieranno il percorso espositivo.

È il bianco che permette l'incontro, il filo che collega annoda congiunge. Morbida matassa. Un territorio da esplorare, qualcosa che inizia vago incerto nebuloso. Cavità dolorosa. Luogo attraversato da immagini isolate, lontane distanti alla deriva.

Forse la costruzione della mostra assomiglia un po' all'abitare una casa e prenderne possesso, dove le immagini e le cose trovano, lentamente, la loro collocazione e relazione, per spostamenti, incastri e aggiustamenti. Tentativo, forma molteplice potenziale frammentata che aspira ad un'unità ed equilibrio. E se la casa in questione comprende qui tutte le architetture e ambienti coinvolti, ogni singolo museo rappresenta allora una stanza di questo edificio che assomiglia e funziona come un organismo e corpo.

Velieri fermi immobili nel mare, una canoa spettrale che solca un lago o un fiume di notte, bianco lunare, cartilagini, perfezione e varietà di vertebre, apparizioni misteriose di animali bianchi eleganti potenti: cavalli e cervi e lupi e mucche enormi pazienti. Figure bianco vestite (umiltà di abiti e paramenti). L'impronta lasciata dai libri e dai quadri. Armature e cavalieri inesistenti. Conigli con orecchie trasparenti alla luce, capillari. Capre pecore galline. Gruppi di oche che guardano immobili nella stessa direzione e poi si muovono e schiamazzano insieme all'improvviso. Barbagianni con le ali spiegate. Ventri molli. Grasso e strutto e burro. Sapone. Piume sparse. Penna perfetta di uccello, spina di pesce e venatura vegetale. Funghi. Alghe e piante marine fluorescenti. Meduse. Puntini di tutti i tipi. Vermi e lombrichi. Bava argentata. Schiuma. Spuma di mare. Saliva.

Bianchi evanescenti e impalpabili come nebbia o nuvola, materni come latte uova farina zucchero. Riso. Il ritorno a casa e il panorama sconosciuto, l'essenza ultima interna delle cose e il velo e sudario che le occulta e bagna e copre parzialmente lasciandone intuire a tratti le forme. Si sta come sospesi tra un bianco che acceca mangia corrode e uno che è rivelazione e carezza.

Che il bianco porta sempre con sé un tentativo di orientamento, reazione al labirinto assoluto, quello dove non abbiamo più coordinate, sperduti in uno spazio infinito, inesistente. Galleggianti come astronauti. Luogo incerto illimitato immenso da cui partire e a cui ritornano le cose, condizione estrema, superficie pura. Polvere e luce. Ancora ad inseguire bagliori intermittenti tra le foglie e le dita della mano.

Il bianco è il margine, l'estensione magica paurosa della mente, il limite imposto a cui si chiede di raccontare il mondo tutto o quasi, attraverso una visione contraddittoria, perché affidata ad un colore che spesso si associa all'assenza, al grado zero o tabula rasa, eppure capace di abbracciare l'intero spettro delle emozioni e percezioni. Che tiene la morte così come la visione angelica virginale, l'astrazione estrema raggiunta per via di levare e la carta geografica o la pagina che aspetta la scrittura, il primo segno coordinata; il freddo glaciale siderale, ghiaccio neve, e il caldo accogliente del nido e bambagia e lenzuola pulite profumate fresche. La carta stropicciata dentro le scatole delle scarpe e l'orrore del polistirolo. Il giglio dell'annuncio, un lieve scostarsi di tende e brezza. Capelli lunghi di vecchia, sciolti per essere pettinati.

Uno sguardo bambino a guida, tra rapimenti scoperte e catalogazione ossessiva autistica.

La prima frattura è data dalla struttura della mostra che si articola in sezioni seguendo una divisione in atti che scandisce il ritmo del percorso espositivo, quasi a mettere sul piatto un fallimentare tentativo enciclopedico di descrivere il mondo, di abbracciarlo tutto, manco si trattasse di una collana scientifica per bambini, di quelle che non si fanno più, positiviste, divise per categorie e argomenti ben chiari e nitidi e separabili con esattezza; con temi e fuochi messi in ordine e in fila.

Questo uno dei primi ostacoli con cui l'impianto della mostra gioca e con cui fare i conti: la difficoltà e impossibilità forse, di affidare questo racconto al bianco, al più bruciante respingente accecante dei colori, ad un estremo invitante, inafferrabile e sfuggente. Una didattica smentita su cui si costruisce la narrazione.

Ora luce morbida che filtra svela disegna, il bianco è spesso associato a quiete leggerezza candore pulizia, ora visione che si affianca ed accompagna alla morte, ad una dimensione di abbandono e silenzio; nulla densissimo, a cui tendere e da cui ripartire.

Il colore perduto della statuaria classica, la luce che slava e sbiadisce – si pensi al suo effetto su fotografie e disegni, o sui panni stesi al sole – il bianco dei monti, le cave e le rocce, e poi strane erbe ritorte pallide cresciute al buio, sotto. Il bianco è la distanza; intoccabile attrazione. Aristocrazia della visione, religiosità di sguardo, spirituale rinuncia. Ascesi mistica.

E poi il bianco moderno e igienico, asettico osceno violento schiacciante che è degli ospedali e delle banche, dei negozi alla moda, degli obitori e delle gallerie d'arte, del bisogno dell'uomo di ordine, controllo e dominio sull'altro; così lontano dallo stupore, delicatezza e forza che invece il bianco in natura porta con sé.

Anch'esso, come il nero del resto, capace di contenere gli opposti e di farli toccare, di chiudere il cerchio e di compiere infine un giro completo dello spettro. Se A nera. Una lezione di tenebra riguardava promesse e cose a venire, possibilità fertili e futuro, E bianca è un allora un discorso intorno agli addii e abbandoni. Il bianco come della perdita. Una mancanza. Aridità struggente, distesa che ha a che fare con il passato, con qualcosa che non è più, come svuotato. O che non è ancora, e a cui crediamo.

E che rilancia la domanda rimasta aperta con la mostra nera, e ad essa si ricongiunge e la completa rappresentandone l'altra faccia o controcanto. La ricerca drammatica di una profondità primitiva, violenta purezza del guardare, verità di forma e immagine spinta sino alla sua negazione.

Una specie di ovattamento che ostacola e al contempo arricchisce la visione, un'addensante e tremante prospettiva aerea che avvolge. Uno schermo. Luce tagliente scintillante come lama che trafigge e fa il bianco vibrante, capace di azzerare e abbagliare, di far esplodere e disgregare i contorni. Smaterializzante e pulviscolare. Luce spolpante. Un'impronta di ciò che era, il contrario di un'ombra. Più simile ad un fossile probabilmente. Una mostra di cose in fin dei conti. E ricordi di visione. Immagini da un mondo perduto o mummificato.

Ma se restiamo fedeli alla divisione per sezioni e torniamo ad esse nel tentativo di mettere a fuoco e precisare l'architettura e disegno della mostra, noteremo come queste siano molto diverse tra loro, ciascuna caratterizzata e differente per un proprio specifico discorso, costruzione e temperatura. Eppure, a guardare bene, le tracce finiscono per sfumarsi l'una nell'altra e avere talvolta punti di contatto, quasi a sovrapporsi e confondersi nei confini; e al loro interno alcuni artisti che sembrano anticipare il tema successivo o che vanno a riallacciarsi e richiamare ciò che si è veduto in precedenza, quasi in un dejavù disorientante e circolare. A contribuire al flusso, forse a confondere le carte e slittare scivolare in un'incertezza di visione e pensiero che fanno il tempo esploso e lo spazio con vertigine concentrica. Abisso senza profondità.

Il percorso si snoda su sei comuni e rispettivi spazi espositivi e musei: da ciascuno di questi affiorano temi che caratterizzano la singola sezione e che finiscono col richiamare per affinità, empaticamente, il lavoro degli artisti. Musei che condensano e trattengono vocazioni e identità dei luoghi; raccolte e spazi espositivi che forniscono tracce e spunti da cui muove il progetto, che suggeriscono percorsi e traiettorie a tessere una trama che fa del museo stesso stimolo e ambito di produzione e ricerca. Uno scambio anche perché nuovi e altri punti di vista si depositano e intrecciano alle collezioni in un'ulteriore stratificazione di significati e immagini. Risonanze.

Un disegno ragnatela di corrispondenze. Talvolta vere e proprie intrusioni ed occupazioni temporanee nelle quali alcuni autori dialogano direttamente con le densità delle collezioni.

E se il museo è il bianco e il territorio ancora da scrivere, questa mostra plurale è allora il disegno che aspira ad essere mappa, tentativo di mettere le cose in relazione e stabilire rapporti, precari, di tracciare nuove linee che triangolano punti sparsi nello spazio devastante. Una costellazione, una collana di lucine e denti e perle, un catalogo infinito. Un museo dell'innocenza.

Sogni e memorie alle Cappuccine di Bagnacavallo, unica pinacoteca tra i musei coinvolti ad ospitare una galleria che dal medioevo arriva sino al novecento, è della pittura e a questo linguaggio è affidata l'apertura e il racconto di questa sezione e mostra, sequenza di immagini e finestre, processione di lampi e bagliori da un mondo perduto. Se la fotografia è sempre la scena di un delitto che blocca congela uccide, la pittura apre invece e scardina e fa il tempo esploso, ci raggiunge e chiama da un'altra dimensione, offre uno spazio altro che ha sempre a che fare con il ricordo mobile e instabile di una visione. Ferita, smagliatura del tessuto che ci permette di entrare accedere ad una specie di realtà parallela, che non si dà facilmente e va come ascoltata. All'improvviso, talvolta, risucchiante distanza. Che la pittura aspetta e il movimento è il nostro e nostra la proiezione sul quadro.

Nei dipinti, nebbie e foschie e brume, intrecci fitti inestricabili di rami, boschi e foreste con radure e animali e uccelli in scenari incantati incorrotti irragiungibili quasi di fiaba, volti slavati e corrosi come vecchie fotografie, ingiallite seccate fragili, doppi e simulacri e maschere e sindoni e veroniche, fragili impronte che nascono già incomplete strappate mancanti amputate, vuoti panorami schiaccianti e improbabili e inadatti a qualsiasi presenza umana o corpo, scena del delitto o teatro di un'apparizione appena fuggita o che sarà, astrazioni biologiche, magmi e affioramenti, intuizioni incerte mobili di figure a cui aggrapparsi e riconoscersi, come succede con le forme delle nuvole, cose portate dall'acqua e ristagni, bianchi di folgore e materia a squarciare. Fotografie di animali impagliati che ci chiamano interrogano accusano e romantiche montagne sognate innevate, appunti e ricordi della bellezza del mondo come visto attraverso una lente appannata. Disegno metamorfosi che genera e apre ad incubi, fantasticherie e fantasmi, mondi possibili dove il bianco della carta cerca di opporre resistenza alla copertura del nero della grafite e carbone. E l'immagine in movimento che passa attraverso un commovente bagno fatto di rarefazione e rallentamento del tempo percezione e memoria. Sguardo distillato come nel ricordo di un sogno.

A Fusignano al San Rocco e Suffragio Geometrie e altre meraviglie della natura e crescita. Uno sguardo nostalgia sulla natura affiora in molte delle opere di questa mostra: una rappresentazione del regno vegetale che diventa, nella ripetizione mantra, cura e preghiera, filtrata da un fare artigianale lento a farne un diario dei giorni. Le materie, le tecniche e i modi di fare acquistano allora un significato particolare, domestico, dettano ritmo e cadenza - disegno cucito ceramica mosaico - quasi a intonare una litania perpetua, un canto delle ore oscillante tra due poli, uno cristallizzato in geometrie, dove il dato naturale sembra venire addomesticato e reso docile, l'altro fatto di andamenti più curvilinei e sensuali e procedenti per accumuli e sviluppi imprevedibili caotici. Onde e sciami e ventosità.

Le targhe devozionali e l'ex ospedale ottocentesco che le ospita ci parlano di un luogo di guarigione, e allora ecco la natura riparatrice, la terapia, prima madre a cui tornare, che accoglie e mangia, crudele e sotto attacco. Un timore. Da proteggere e difendere, con riti anche, e il cucire e un disegno decorativo ossessivo sono strategie e sortilegi per capovolgere il mondo, o salvarlo, per comprendere l'ordine segreto e la regola e numero che lo governa. Per raggiungere un equilibrio e quiete. Respiro che contempla morte e rinascita, tra ordine, sviluppo matematico e improvvise accelerazioni tumorali barocche. Griglie, strutture e sinuosità vegetali.

Una natura che pare a tratti impossibile, compromessa anche solo dal tentativo amoroso di tradurla, fino a farla diventare sterile artificiale decorativa attraverso la disciplina e astrazione della geometria; e un lieve accenno di disordine o errore a riprendersi gli spazi e minare il disegno, un'attesa di rivoluzione e sommovimento che scorre, sottopelle, dentro alle vene e nervature. Palpabile percezione di un rovesciamento prossimo, silenzioso incombente, stasi prima della crescita improvvisa tumultuosa incontrollabile caotica, con tuono e fragore di terremoto. A fianco, un fare bambino, a tratti ingenuo candido giocoso, con moltiplicazioni e morbidezze e sensi aperti ricettivi felici. E pesantezza di materia che viene alleviata e alleggerita come respiro. Verrebbe da dire anima...

Ad Alfonsine Innesti, in quello che non è solo un museo di guerra ma una raccolta di storie e genti che racconta del fronte sul fiume Senio e della distruzione avvenuta ai danni dei paesi affacciati; questa mostra parte da una piccola sezione che conserva un gruppo di oggetti lasciati indietro e abbandonati dopo il passaggio degli eserciti. Oggetti militari che gli abitanti hanno poi riutilizzato mettendo in pratica un atteggiamento in bilico tra la decontestualizzazione del ready-made e lo sguardo iconoclasta che cambia di significato alle cose, senza negarle del tutto, infischiandosene della loro funzione, per necessità certo, per felici intuizioni dettate dal bisogno e povertà, eppure resta sottotraccia qualcosa in più, un destino beffardo delle cose, un'amara ironia di fondo. E allora un elmetto nazista diventa un badile per raccogliere letame, una cassetta metallica contenente armi si trasforma in stufa, una griglia metallica per decolli su terreni fangosi dà il là ad una serie di cancelli visibili tuttora in Romagna.

Una poetica del riciclo e riutilizzo che non è distante dalla ricerca di molti artisti che operano veri e propri innesti a partire da un alfabeto frammentato di oggetti. Rifare mondi a partire da cose già esistenti, rinominarle con nuovi assemblaggi e relazioni inconsuete a risignificarle, spostarle e riportarle in vita. Talvolta congelate in una frigida ibernazione lattiginosa.

Oggetti contro natura forse; nature e parti di essa che diventano cose e oggetti e viceversa; armature e protesi, rifugi di fortuna precari, nuove antiche architetture abbandonate silenziose, sistemi organici morti. Diorami in miniatura dove ricreare il mondo e vita. Esperimenti di laboratorio. Un fiume che diventa segno e linea per nuove metafore del combattimento. Collezioni ipertrofiche, messaggi e riassunti del mondo da inviare nello spazio, e feticci.

Dall'attitudine vorace e bulimica di Varoli che trova raccoglie conserva reperti e chincaglierie (ancora una volta il collezionismo) muove la mostra di Cotignola: Archeologie. Tra il biancore lapideo glaciale del marmo e pietra, e quello osseo animale minerale cartilagineo di un bestiario bambino: fossili, impronte, corpi velati, superfici scheggiate sbrecciate, paesaggi intrappolati e misteriose città affioranti, fotografie da albori corrose e svanenti, e una scultura che si fa mappa, sito visto dall'alto, soglia e discorso sul tempo. Mondo scoperchiato da uno scavo, con luce che inonda rivela. Cera. Tessuti candidi, piacevoli al tatto, fatti con cotone buono. Altre ruvidità e imperfezioni di margini smunti frastagliati a contrastare levigatezze splendenti.

La mostra abbraccia e si estende a tutto il museo in un vero e proprio cortocircuito disseminato tra collezioni e opere contemporanee: vesciche preziose lucenti come alabastro e ambra, foglie e fotosintesi che raccolgono, impigliano e trattengono memorie di sguardi e affetti, dettagli e parti magiche simboliche di corpi, relitti e legni ammuffiti scrostati di barche arenate distrutte, ruggini, enigmatici oggetti senza più funzione condannati ormai al piedistallo o teca, quasi animali e scarti organici trasformati da follia visionaria di scienziato pazzo, costellazioni, sistemi e galassie calcaree, tragici corpi muti tra sonno e caduta, impronte dell'aria e calchi che trattengono le voci e i respiri, i pensieri e i battiti; divinità perdute disperse, eroiche visioni di statue e pezzi sparsi e immagini come raccolte salvate da un campo di battaglia immenso e tragico e senza tempo e fine, con la storia tutta dentro, e gli uomini e i fiori e gli amori e le sconfitte e una bellezza ancora possibile, lacerata in frantumi. Sguardo che si dimentica e abbandona, divorante divorato dalla storia dell'arte e dalla gamma insostenibile meravigliosa dei sentimenti dell'uomo, sepolto dal suo atlante sterminato e geologico di cose vedute.

A Lugo Esplorazioni e avventure. Anche se il museo non viene coinvolto direttamente, la figura eroica dell'aviatore Francesco Baracca aleggia, indica e traccia un possibile percorso a cui si affianca un altro fantasma di lughese illustre, quello di Agostino Codazzi cartografo e geografo e rivoluzionario. S'impone allora uno sguardo a volo d'uccello, un occhio belva che vede fruga ruba, una prospettiva aerea sulle cose; e poi la dimensione della scoperta e avventura, tra l'infimo e banale quotidiano e l'esotico improbabile sorprendente.

Indagine condotta principalmente dalla fotografia, linguaggio che, nonostante tutto, è ancora il mezzo più credibile a cui affidarsi per trafiggere e inchiodare la realtà, per rovesciarla e fare in modo di tornare a vederla. Per prolungare l'inganno e il racconto di mondi altri. Contro l'abitudine di un vedere morto che sa già tutto. E poi il disegno, sguardo immaginifico, tentativo assoluto originario di orientamento. Prima mappa, anche nel semplice segno nudo e scarabocchio analfabeta, anch'essi misura dello spazio e profondità e grammatica.

La trasparenza lucida instabile volatile dell'acetato, angoli affollati della città dove la scena e il tempo si fermano per un istante perfetto come a svelare in un capogiro specchiante e labirintico le intersezioni e gli equilibri tra le cose e le vite e i movimenti e le traiettorie del caso, infimi angoli abbandonati con erbe che crescono tra le crepe e distrazioni, gabbie reti griglie ringhiere, pali e fili e panni stesi ad asciugare e cavi dell'elettricità e telefono, saracinesche spigoli muri scrostati, stanze e camere spoglie, città souvenir portate altrove e liberate, quasi una surrealtà. Carte e libri, tavolozze di ghiaccio, neve e vapore, paesaggi silenziosi arenati, onde e derive. Diari di bordo e mappe cancellate coperte in nome della libertà o del fare da capo, ancora, bisognoso di distruggere.

Infine Massa Lombarda, Regni bambini, il tutto e niente dell'infanzia e la collezione Venturini, sorprendente raccolta fuori tempo massimo di naturalia e mirabilia; un accumulo simile a quello del fanciullo che riempie le sue tasche delle cose che trova e incontra nelle sue scorribande, un catalogo di possibilità e giochi, un abecedario del mondo.

E poi la pinacoteca a chiudere idealmente il cerchio con l'inizio di E bianca rappresentato da Bagnacavallo. Oltre alle raccolte questa sezione coinvolge anche il Centro giovani con una narrazione affidata a molteplici linguaggi che ci restituiscono un universo lieve e incantato, capace di affondi e inquietudini oscure: volti tanti a guardarci e sorprenderci, figli a popolare il mondo e compagni immaginari, trofei tra il delicato e grottesco, paesaggi e giardini perduti di un eden lontano, quasi magia, accumuli e intrichi e grovigli di legni ritorti e rami e ossa e morbide palle di lana e tessuto. Carta stropicciata. Fiabe tragiche. Ceramiche e porcellane raffinate perfette preziose, eleganza ingannevole, trabocchetto che nasconde e apre voragini di senso; un'ironia implacabile che si diverte a capovolgere devastare il mondo, per gioco o per noia. Per spostare limiti e confini. Per tornare finalmente al bianco che forse fa le cose nuove, o morte del tutto.

Verso l’unita’ dei colori quale profezia

di Gian Ruggero Manzoni



Sia gli scienziati che i pittori hanno dimostrato, dopo anni di studi e di esperienza, che sono solo tre i colori di base dai quali si ottengono, mescolandoli, tutti gli altri; questi tre colori, considerati “assoluti”, cioè fondamentali e puri, perché non si possono ottenere con nessuna mescolanza, sono detti colori primari. Per lo scienziato i colori primari sono il rosso, il blu e il verde; per il pittore sono il rosso (il rosso-magenta), il blu (il blu-ciano) e il giallo. Mescolando i tre colori primari degli scienziati si ottiene il bianco. Mescolando i tre colori primari dei pittori si ottiene un colore scuro, praticamente il nero. Nel primo caso parliamo di sintesi additiva, perché si somma luce a luce; nel secondo caso si parla di sintesi sottrattiva, perché si toglie luce a luce.

I profeti vedevano la Divinità rivestita di un mantello bianco come la neve, e con una capigliatura bianca paragonabile a lana purissima (Daniele,7 e 10). Il colore bianco è nella Bibbia e nelle diverse tradizioni religiose, filosofiche e iniziatiche (India, Cina, Giappone, Persia, ecc.) il simbolo della verità assoluta di Colui che è, cioè di Dio.

Quindi il bianco risulta, per scienziati e credenti nella Divinità, quale unità di tutti i colori.

Ma il nero e il bianco sono da considerarsi colori oppure no?

Per lo scienziato che studia la fisica no, perché considera il bianco solo come somma di tutti i colori, mentre il nero ne è l'assenza totale.

Al contrario, per un artista, sono due colori, per quanto anomali, definiti acromatici, cioè (nell’assioma) “privi di colore”: per la precisione il bianco è considerato primario, perché non si ottiene mescolando altri colori, e il nero secondario, perché si ottiene mescolando altri colori.

Anche gli antichi attribuirono a Giove, padre degli Dei e degli uomini, il colore bianco.

Quindi il bianco è notorio che stia a indica anche la fede e la purezza.

Raffaello, in Vaticano, nell’allegoria della Teologia, la rende vestita di una tunica rossa (carità), di verde manto (speranza) e di bianco velo (fede).

Per chi sa d’arte, di storia e di simboli, le pitture cristiane del medioevo rappresentano l'Eterno vestito di bianco, e di bianco è il Cristo risorto (Marco,16:5; Luca, 24:4; Giovanni, 20:12).

Inoltre, spesso, i pittori mistici col bianco indicano il Verbo, cioè la Parola. Del resto il colore bianco è, per la mente, come le onde per il mare: agisce su di noi come fosse musica. Perciò il bianco ha un suono (si pensi ai mistici islamici Sufi, o ai Dervisci Danzanti-Roteanti, vestiti in bianco, emananti “energia musicale”).

Il “suono bianco”, in acustica, è un suono contenente tutte le frequenze udibili, e appunto viene chiamato “bianco” per analogia con il colore bianco, che contiene tutte le frequenze visibili

Secondo l’Apocalisse di Giovanni (7,13-14), il bianco è il colore della purezza ottenuta col sacrificio fino al martirio: “Poi uno degli anziani mi rivolse la parola, dicendomi: Chi sono queste persone vestite di bianco e da dove sono venute? Io gli risposi: Signor mio, tu lo sai. Ed egli mi disse: Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione. Essi hanno lavato le loro vesti, e le hanno imbiancate nel sangue dell'Agnello.”

Il grande scrittore Tommaso Landolfi segnò in nero sulla pagina bianca: “Il bianco è il colore sfacciato del pudore.”

Il filosofo Roberto Peregalli invece ha detto: “Il bianco è il profumo dei colori. [...] Il bianco, ancora più del nero, laddove usato nella sua purezza, è uno dei colori più difficili che esistano, e meno imparziali. Riportato in quantità massicce la sua forza rischia di ritorcersi contro. Diventa indifferente solo in apparenza. In realtà l’indifferenza non esiste. Nulla è indifferente. È un abbaglio, un alibi. Equivale all’apatia. Il bianco è materia, carne, vita. Perciò ci tocca, ci penetra, ci feconda.”

Forse che il Bianco, come la Divinità o la Scienza, vada a incidere su tutti i sensi per poi spingersi oltre gli stessi al fine di dare immagine compiuta a una condizione: quella umana?

Forse che il bianco sia “seme” che dà nuova (o altra) vita, nonché Sapere sulla stessa?

Mi piace crederlo, così come mi piace credere che il domani sia votato al Bianco, e a quei suoi infiniti rimandi ed echi.

E questo ho insegnato a mia figlia.

L’albume e l’albedo. Oggetti e luce in Piero della Francesca

di Alessandro Giovanardi



Una striscia di bianco si schiude nella veste della Madonna del parto: losanga irregolare di mandorla dolce, più chiara e preziosa del nobile ermellino, succo di uovo che si sguscia in un lembo di terra difeso dagli angeli. Un padiglione custodisce il parto dell’albedo senza tramonto, come il tabernacolo l’ostia immacolata. Ferma presenza del cerchio nel centro come invece è incerto il lunare padiglione del Sogno di Costantino ad Arezzo. Il bianco del sole non è quello della luna, ma «qui la luna partorisce il sole». Colore della giovinezza rovesciato nella sapienza canuta della barba di san Sigismondo, nell’eloquenza silenziosa dei marmi purissimi nel Tempio di Rimini. Anche la stanza chiara dove s’inginocchia il Malatesta è una veste di lino che si ribalta e l’interno dipinto ha le forme del fronte reale: un’aula vegliata dal quieto levriero dal bianco manto e con le orecchie basse. Il gemello scuro, all’erta, è sovrastato dalla limpida mole di Castel Sismondo che gareggia in nitore con le nubi e con la lana. Ma il volto del Santo che fu antico re e martire e forse maschera per un imperatore recente è affratellato ad altre figure di sapienza: il Salomone aretino, il giovane Salvatore battezzato e quello provato e incrollabile della Resurrezione di San Sepolcro. Volti frontali, come quelli delle icone, dove l’uovo spezzato nel rito diviene oro e fiumi di albume che si dipartono dal viso simile a corsi d’acqua vivificanti per farsi barbe bipartite e ciocche suddivise come cartografie del cosmo. Nel Battesimo Cristo è un tronco chiaro «piantato presso corsi d’acqua», pilastro di luce iniziatica simile all’albero frondoso che gli è cresciuto accanto: bianco come acqua e luce si ripete nel fiume, raddoppia se stesso e s’inverte come in uno specchio, sospeso fra due cieli tersi.

In principio difatti è la luce. Così è all’inizio della pittura sacra. Sulla tavola minuziosamente levigata viene spalmato uno strato di gesso bianchissimo; primo lume creato, tabula rasa su cui tutto sarà scritto. L’albedine in sanscrito è sattva: materia originaria, frutto iniziale della manifestazione, luce che fonda l’esistenza universale. Tra il legno e il gesso una pezza di lino chiaro – bianco – suggerisce la struttura e il movimento primordiale dell’universo. È fascia d’infante innocente, benda pietosa di morto, sudario e tovaglia d’altare: corporale o antimension. Il colore si prepara con la rottura di un uovo. Il tuorlo giallo viene separato dal bianco e inciso. Gli ultimi tocchi si danno con la biacca pura o con l’oro: lumen de lumine, alla fine come al principio. L’albedo impalpabile si raccoglie solo nell’albume, come la quint’essenza indicibile nella densità del reale. Le tavole di Piero s’iscrivono su un rito tale che non richiede consapevolezza ma precisione di gesti. Oggetti come disegni di geometrie metafisiche, numeri di matematiche contemplative: sono frutti della bianca luce originaria che li rende emblemi e metafore, simboli e segni. Lume che penetra il vetro senza spezzarlo, come lo Spirito l’imene intatto della Madonna di Senigallia: «dardo sidereo che ingravida un’adolescente iniziata nel segreto del Tempio». Traslucido pulviscolo presago degli interni di Vermeer: bianco fiammingo figlio di un esoterico candore toscano, di una pitagorica scienza rivelata, «non licet calato sul mistero». Il velo della Madre ha la trasparenza del vetro: la tradizione ne fa il perizoma del crocifisso. Il cesto di vimini colmo di pezzuole senza macchia – segno di parto indolore e miracoloso – è ventre puro della Vergine, fiscella scirpea che trasporta Mosè attraverso le acque del Nilo. Splendida è poi la bianca rosa, sbocciata in mano a Cristo, integra bellezza del Figlio. Ma il fiore chiaro, multipetalo mai si dà senza spine e passione: sacrificio dell’Agnello incorrotto, sgozzato fin dalla fondazione del mondo. Il Salvatore – vegliardo travestito da infante – porta candidi panni e un rosso corallo di sangue: il vino e l’acqua, il bianco e il vermiglio di una liturgia eucaristica. Qui veglia come un Buddha arcaico, mentre dorme abbandonato nella Pala di brera, accolto in una nicchia, immensa valva di marmo bianco, limpida misura d’architetto, scrigno di perla perfetta, priva di ombra o di male. L’ostrica – margarita – partorisce la gemma marina senza bisogno del seme maschile, frutto del lampo penetrato nel suo arcano: la perla è Verbo di Dio, anima d’uomo, nume nascosto, Regno dei cieli. È un seno di Madre sommerso, abissale, gnostico. Ma al centro Piero vi appende, infine, l’uovo di struzzo, filo a piombo di costruttore, araldo pasquale della rinascita, utero – vuole la leggenda –fecondato solo dalla luce dell’Astro. Ne portano memoria i volti di guscio delle Madonne di Sassoferrato, accolti dal manto come uova nel paniere, le stesse stese su un piano dal Casorati pierfrancescano.

Il ponte va però a ritroso verso il Giudizio dei mosaici di Chora, dove l’angelo porta via l’eone presente, ripiegato a spirale in forma di bianca conchiglia, mentre il Redentore è dentro una perla nuova iridescente, tuorlo d’oro egli stesso in un uovo azzurro e candido di luce.



Breve nota bibliografica:

B. Berenson, Piero della Francesca o dell’arte non eloquente, Milano, Abscondita, 2007.
C. Campo, Sulla fiaba e Sensi soprannaturali (entrambi in Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987); Diario bizantino (in La Tigre Assenza, Milano Adelphi, 1991); «Un ramo già fiorito». Lettere a Remo Fasani, Venezia, Marsilio, 2010.
A. Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Milano, Mondadori, 1996 e Acquario, Milano, Mondadori, 2002.
L. Charbonneau-Lassay, Il Giardino del Cristo ferito. Il Vulnerario e il Florario del Cristo, Roma, Arkeios, 1995.
M. Eliade, Immagini e simboli, Milano, Tea, 1993 e Il mito dell’alchimia, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
J. Lindsay Opie, What is Icon Painting?, «Sophia Perennis», III, 2 (1977).
R. Longhi, Piero della Francesca, (in Da Cimabue a Morandi, Milano, Mondadori, 1973).
A. M. Maetzke, Piero della Francesca, Milano, Silvana, 1988.
D. Formaggio, Piero della Francesca, Milano, Mondadori, 1957
E. Zolla, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Venezia, Marsilio, 1991.

Sostenere il bianco

di Roberta Bertozzi


All’origine di qualsiasi atto creativo sta sempre il bianco, intendendo con questa parola quello spazio vuoto, immacolato, vergine che precede ogni poiesis, ogni produzione d’opera. Il bianco della pagina, della tela, di uno spartito, la cornice deserta di un palcoscenico; così come bianca, cioè ermetica, priva di rilievi, può essere considerata la realtà stessa prima che l’occhio di un fotografo o di un regista vi incida il suo taglio: in tutti questi casi si tratta di supporti, luoghi, contesti “non scritti”, cui non è stata applicata alcuna selezione, non marcati da alcun perimetro o segno – del tutto incondizionati. Di riflesso, può essere considerato bianco anche quell’intervallo, quella fissità inesplicabile, quella sospensione vagamente ipnotica che si impossessa di chi è in cerca di un’idea, o meglio, di chi è vittima del brancicare del pensiero ancora al suo stato nascente, ancora in attesa di espressione. Mancamento di fronte al continuum indifferenziato della realtà, di fronte al tempo, alle parole, a se stessi: un unico, lineare testo bianco.

L’artista fa costante esperienza di questo limite, oscilla ripetutamente entro questa zona incerta che sembra spronarlo a un confronto – che chiede di essere attraversata, occupata, agita. L’immagine del blocco dello scrittore davanti alla pagina, di un pittore davanti alla sua tela, suggerisce tale implicita sfida e insieme la presa di coscienza della totale arbitrarietà del proprio gesto, dell’abisso in cui si muove l’intenzione. Lo spazio bianco ci inchioda alla perpetua minaccia dell’afasia, all’instabilità costitutiva del nostro fare: ci restituisce a quel punto di partenza in cui stazioniamo indifesi, impreparati, in cui neanche quanto abbiamo compiuto in passato è in grado di attestare la nostra esistenza. Il senso di impuissance, l’aridità o stallo che l’artista conosce è in esclusiva relazione con questo punto: non si tratta di una semplice mancanza d’opera, né di uno stato psicologico o esistenziale che intralcia l’azione del soggetto; è altresì l’esperienza di una situazione “drammatica”, di un teatro di forze contrastanti e a un tempo complementari, di un’arena in cui l’ispirazione e la mancanza di ispirazione si confondono, la potenza o lo stare in potenza, la libertà di creare o di non creare affatto si equivalgono.

Esiste in ambito letterario una figura che è stata più volte utilizzata come paradigma di tale dimensione: mi riferisco a Bartleby, protagonista dell’omonimo racconto di Herman Melville. Assunto come scrivano presso uno studio legale, egli a un tratto desiste dallo scrivere e in seguito dallo svolgere qualsiasi altra mansione, opponendo alle richieste del suo capo una replica tanto enigmatica quanto sconcertante, “I would prefer not to”, “Preferirei di no”. A poco a poco la formula scardina qualsiasi possibilità per i colleghi e l’avvocato di rapportarsi a lui e barrica il nostro eroe in un’aura di pura incomprensibilità, infondendo in quelli che lo circondano una sorta di timore reverenziale. Ecco l’interpretazione che Giorgio Agamben dà di questa sua eccentrica condotta: “L’atto perfetto di scrittura non proviene da una potenza di scrivere, ma da una impotenza che si rivolge a se stessa e, in questo modo, avviene a sé come un atto puro (che Aristotele chiama intelletto agente, o poetico). […] Bartleby, cioè uno scrivano che non cessa semplicemente di scrivere, ma “preferisce di no”, è la figura estrema di quest’angelo, che non scrive nient’altro che la sua potenza di scrivere”. Bartleby sa di poter scrivere ma preferisce non farlo: lo spazio bianco che si stende di fronte a noi è precisamente la prospettiva in cui si consuma tale aporia, sempre nella forma di un’ambivalenza: se potere o non potere, fare o non fare – se, in ultima istanza, tracciare o non lasciare traccia.

Là dove si dà assenza d’opera il creatore impiega il suo tempo prevalentemente nello sforzo di stabilire un contatto con questo nulla, di insediarvisi, provocandolo e facendolo reagire. Egli è consapevole che se fosse altrimenti, se non incontrasse resistenza alcuna, la necessità del suo atto verrebbe meno, si spegnerebbe la ragione stessa del suo essere. In fondo, questo suo ostinarsi contro lo spazio bianco, questa sua esigenza di scongiurarlo, fanno intendere una consapevolezza ben più tragica, e cioè che esso nega la sua identità: senza opera d’arte, di scrittura, di parola, a essere messa in discussione è la sua stessa persona. Come suscitare quindi questo agone? In che modo far reagire il vuoto, la più assoluta e terrificante disponibilità? Come far risaltare una differenza in quella superficie uniforme e anonima che gli sta davanti? Costringendosi, diventando il prigioniero volontario, o il suppliziato, della legge fattiva che egli si è scelto.

Paul Valéry aveva già intuito come, nel momento della creazione, l’artista condizioni se stesso attraverso una serie incalcolabile di pressioni, incaricandosi, contemporaneamente, di essere fonte, costruttore e coercitore. Il suo sforzo è insomma triplice: c’è una prima fase che è puro impulso, slancio, caotica irruenza, cui ne segue un’altra, la quale dirige, modifica, architetta, fa convergere in un’unica trama il fascio di significati che irradia in ogni direzione; infine, la terza è diretta ad assicurare una effettiva durata all’intera manovra. A proposito di quest’ultimo, fondamentale passaggio, scrive Valéry: “Insomma, bisogna sottomettersi a una certa costrizione; essere in grado di sopportarla; persistere in un atteggiamento forzato, per dare agli elementi di pensiero, che sono a confronto o in carica, la libertà di obbedire alle loro affinità, il tempo di unirsi e costruire, di imporsi alla coscienza; o di imporle una qualche certezza”.

Sostenere il bianco, il vuoto, l’assenza di significazione, di necessità, di oggetto; reggere la finzione garantita solo dalla nostra durata. La formula della creazione è del tutto simile a uno sforzo muscolare statico, a una compressione prolungata, a una prova di tenacia. Contro lo spazio illimitato del supporto, la sua illimitata accessibilità, il suo non presentare argini di sorta, l’artista non può che attuare un détournement della propria postura, estrarre da se stesso i vincoli, le interdizioni, i rituali, tutto ciò che lo aiuti a preservare il gesto, che possa favorire l’emersione di un legame, di una fatalità in ciò che va facendo. La sua esistenza è irrimediabilmente sotto condizione, ogni sua impresa configurandosi sempre come opus incertum, come qualcosa di verificabile soltanto nel corso dell’esecuzione. Mai prima, come ho tentato di dimostrare, e nemmeno dopo. Perché non appena l’opera è terminata, non appena essa è entrata nello stato irreversibile del nero-su-bianco, si dà improvvisamente uno squilibrio: assolto il suo compito l’artista è costretto a sperimentare l’identica estraneità iniziale, lo stesso distacco avvertito di fronte alla pagina vuota. Egli non dispone più dell’opera, ormai del tutto avulsa anche dalla propria matrice storica e dinamica, ed essa non domanda lui più alcun intervento: tutto ciò che è stato compiuto presto dissolve, come per una mano di bianco.

Attrazione glaciale *


di Stefano Mazzotti **



Chi potrebbe descrivere la bellezza d’una notte polare quando la luna splende in tutta la sua pienezza? Vi è qualche cosa che incanta guardando da terra quell’immenso campo bianco scintillante sotto i raggi lunari, il quale non è interrotto che dal nero della “Vega” che erge al cielo le sue braccia come un gigantesco fantasma.
Giacomo Bove


L’altrove, l’oltremare, andare lontano, esplorare l’ignoto; da sempre è una delle esigenze primarie della specie umana. Le bianche sterminate pianure della Siberia, le innevate catene montuose dell’Himalaya e del Caucaso, l’Alaska e persino i massicci montuosi inesplorati all’interno del continente africano eserciteranno un irresistibile fascino sulla cultura europea, muovendo un intenso flusso di ricercatori che arricchiranno le conoscenze scientifiche su queste aree del pianeta ancora in gran parte incomplete. Le spedizioni, anche se promosse ufficialmente da organizzazioni governative o da società scientifiche, non perderanno il loro carattere eroico e avventuroso, spesso toccheranno mete al limite delle possibilità umane, arrivando anche a chiedere in cambio la vita di questi nuovi protagonisti dell’esplorazione.

La storia delle esplorazioni polari è forse il capitolo più ricco di queste avventure; i diari e le relazioni delle spedizioni organizzate da intrepidi esploratori irresistibilmente attratti fin dal xvi secolo da quelle infinite distese di ghiaccio sono vere e proprie icone della letteratura odeporica. Questi uomini si sono spinti all’estremo nord, e sono giunti alla “fine del mondo”, con lo scopo primario di trovare una via di passaggio dall’Atlantico al Pacifico. Alcuni di loro l’hanno cercata nell’America settentrionale, provando a tracciare il passaggio a nord-ovest; altri sono penetrati fra i ghiacci lungo le coste settentrionali del continente eurasiatico per scoprire il passaggio a nord-est. Queste spedizioni, mosse inizialmente da scopi commerciali, dal xviii secolo assumono invece una connotazione sempre più scientifica.




Passaggio a nord-est

Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento Bove è reduce dalla crociera in oriente (Malesia, Borneo, Filippine, Giappone e Cina) sulla pirocorvetta Governolo, che dal 1872 lo ha impegnato in una missione scientifica. Durante questo viaggio Bove, venuto a conoscenza della spedizione polare svedese pianificata dall’esploratore e scienziato Nordenskiöld, non perde l’occasione e chiede di partecipare. La Vega, ex baleniera riadattata per scopi scientifici, salpa dal porto svedese di Karlskrona il 22 giugno 1878, alla ricerca del mitico passaggio a nord-est.

Fin dalle prime tappe, lungo la frastagliata costa nei pressi di Capo Nord, Bove comincia a percepire una sensazione di sgomento di fronte alla vastità dell’Artico: «Il silenzio che mi circondava mi faceva paura, ed io guardavo sbigottito l’immenso e variato panorama che si spiegava sotto ai miei occhi. A dritta, sin dove lo sguardo poteva giungere, erano bagliori di nevi, scintillii e pallide azzurrità di ghiacciai, creste squallide e nude, splendide guglie: a sinistra l’immenso oceano chiuso da un orizzonte nero e minaccioso».

Ben presto però i timori di Giacomo si dissolvono; il 25 luglio la Vega solca le acque del Mar glaciale artico e a bordo fervono le attività scientifiche: «Si son cominciate le osservazioni idrografiche, alle quali soprintendo io; ed esse consistono nello scandagliare esattamente il fondo, mediante uno scandaglio comune o Brooke; dragare per avere saggi di fondo e campioni della fauna di questi mari; gettare larghe reti alla superficie del mare per raccogliere alghe ed altre sostanze vegetali in sospensione; misurare temperatura, peso specifico, quantità di sale contenuto nell’acqua a diverse profondità ecc.».

Superata la grande isola artica della Nuova Zemlia, gli esploratori della Vega fanno il loro primo incontro con il popolo dei samoiedi; poi, proseguendo nella rotta verso est, la nave imbocca il mar di Kara, che promette l’incontro con la pericolosa banchisa. Nel suo diario di bordo Bove racconta di quei momenti d’apprensione: «Ognuno di noi spiava quindi attentamente le acque che si spiegavano dinanzi e l’equipaggio aggrappato sulle sartie, disteso sui pennoni e abbarbicato sulle alte cime degli alberi interrogava ansiosamente l’orizzonte». All’improvviso, «niuno pose il dubbio che stavamo correndo tra il ghiaccio, ed in effetti alle 11 pm. un sordo brontolio come quello dell’onda che si frange sopra di una spiaggia ci annunciò che eravamo giunti sul margine di esso. Questo rumore che sentito in altri mari ed in altre circostanze mi avrebbe agghiacciato il sangue nelle vene, là trovava invece le vie del mio cuore come dolce melodia».

La navigazione fra i ghiacci della nave, la cui prua è adeguatamente rinforzata da lastre di metallo che proteggono la chiglia dagli urti delle masse di ghiaccio, è abbastanza agevole, cosa che viene accolta da Bove come un buon auspicio: «Il ghiaccio però non era così serrato da offrire un serio ostacolo ad una nave qualsiasi; larghi canali d’acqua libera separavano un blocco dall’altro, cosicchè la “Vega” potè senza difficoltà spingersi in mezzo ad esso e senza grandi deviazioni proseguire nella sua rotta […]. Di per ogni dove ci giungevano i gemiti e gli urli delle masse cristalline che si fendevano: magnifiche cascatelle scendevano lungo i fianchi di alti icebergs, i quali dal sole e dalle onde si spaccavano mandando ruggiti terribili».

Superata la foce del grande fiume siberiano Lena, la navigazione comincia a farsi difficoltosa a causa della presenza di un pack sempre più compatto; il 28 settembre 1878 la spedizione è costretta a fermarsi nella terra dei ciukci, per passare l’inverno artico nei pressi di Pitlekai. Durante il lungo periodo di sosta Bove studia a fondo il popolo siberiano, e nel suo diario riporta dettagliate osservazioni sulle loro abitudini di vita, sugli attrezzi e sulle capanne, illustrando con precisi disegni anche le forme e le architetture delle loro costruzioni. La vita durante il lungo inverno artico non è certamente delle più gradevoli, ma gli esploratori non si fanno prendere dallo scoramento, come testimoniano le parole di Bove:

«La vita continua monotona ed il freddo aumenta; abbiamo già raggiunto i -37°, ma non sarebbe nulla se non tirasse continuamente questo benedetto vento. […] La salute dello stato maggiore e dell’equipaggio non lascia a desiderare e ciò devesi principalmente alle occupazioni in cui l’equipaggio stesso è tenuto. Per l’acqua ci serviamo del ghiaccio preso nelle vicinanze della nave: è di prima qualità, perciò l’acqua è buonissima. Si sono uccisi i due maiali che avevamo a bordo, essi serviranno ad aumentare l’allegria del giorno di Natale. Intanto si lavora alacremente per preparare la festa di Natale: albero, regali, musica, ecc. Le mie raccolte etnografiche vanno via via aumentando».

La notte di Natale del 1878 spira un forte vento dall’est, la temperatura sale repentinamente verso lo zero e il cielo terso si illumina di una stupefacente aurora boreale.

In un giorno di marzo, durante un’escursione fra i ghiacci lungo la costa, viene avvistato un gufo delle nevi dalla candido piumaggio che sorvola il territorio a caccia di lemming: forse una prima avvisaglia della fine del lungo inverno boreale? No, perché gli scienziati dovranno attendere ancora diversi mesi per poter liberare la Vega dalla morsa dei ghiacci e riprendere il mare. Verso la fine di aprile le temperature cominciano a salire, e il ghiaccio inizia un lento disgelo; il 17 maggio sembra succedere «Alle 6 pm. del pomeriggio la nave si liberò dal ghiaccio e si rialzò subitamente: a prua si alzò di un piede ed a poppa di qualche centimetro». Ma è un falso allarme; ben presto le temperature precipitano ancora, e ricomincia a nevicare. Si dovrà attendere il 18 luglio 1879 per muovere finalmente la Vega verso il suo destino; il 20 del mese la spedizione attraversa lo stretto di Bering, e con le bandiere di gala issate saluta il passaggio con cinque colpi di cannone. Il viaggio prosegue verso l’Alaska, fa sosta nell’isola di San Lorenzo e poi, il 2 settembre, getta l’ancora a Yokohama, dove l’equipaggio riceve onori e festeggiamenti. Da lì, attraverso l’Oceano Indiano e il canale di Suez, il 14 febbraio 1880 arriva a Napoli.




Il principe esploratore

Nel luglio del 1897 Luigi di Savoia, Filippo De Filippi e un gruppo di fidate guide alpine valdostane davano inizio alla scalata al monte Sant’Elia, massiccio montuoso situato lungo la catena costiera occidentale ai confini fra l’Alaska e il Canada. Il resoconto di questa impresa è narrato nella relazione pubblicata nel 1900 con il titolo La spedizione di S.A.R. il Principe Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi al Monte Sant’Elia (Alaska). La squadra è composta anche da Cagni, da Sella e dal suo assistente fotografo Erminio Botta, dall’avvocato Francesco Gonella, presidente della sezione di Torino del Club alpino italiano, e dalle guide valdostane.

La dura arrampicata di questo massiccio nord americano ha successo: raggiungono per la prima volta nella storia dell’alpinismo la vetta a 5493 metri. Ecco come De Filippi ricorda quel glorioso momento: «Vedemmo il Petigax e il Maquignaz, che camminavano alla testa, tirarsi da parte, cedendo il passo al principe. Il culmine estremo era dinanzi a loro, a pochi passi. Sua Altezza Reale si avanza fra essi e mette il piede, primo sulla vetta del Sant’Elia, mentre tutti noi accorriamo ansanti, trafelati, per unirci al suo grido di trionfo: Urrà per l’Italia e per i Savoia!». Al di la della retorica patriottica e dei record sportivi l’impresa porta anche notevoli risultati scientifici. Oltre ai contributi geografici De Filippi raccoglie infatti una vasta messe di dati geofisici, meteorologici, geologici e naturalistici, e riporta con sé in Italia una notevole raccolta di piante e animali che saranno oggetto di studio da parte di vari specialisti dell’epoca.

Nel 1899 il duca degli Abruzzi organizzerà la spedizione polare con la nave Stella Polare, una ex baleniera norvegese acquistata direttamente dal principe e riadattata per la spedizione. La spedizione polare di Luigi di Savoia avrà risonanza mondiale, perché raggiunge una latitudine nord (86° 34’) mai toccata fino ad allora. Ma la traversata della banchisa è durissima: il principe subisce il congelamento di una mano e deve lasciare il comando della spedizione a Cagni, che grazie ai 121 cani da slitta acquistati in Siberia e imbarcati sulla nave riesce a portare a termine la spedizione.

Nel 1909 il principe Luigi di Savoia lancia la sua personale sfida al massiccio del Karakorum e alla proibitiva vetta del K2 per tentare di stabilire il nuovo primato d’altitudine raggiunto da un essere umano. Le immagini raccolte da Vittorio Sella con la sua ingombrante e pesante fotocamera Kodak Folding e la storia di questa scalata scritta da De Filippi, pubblicata nel 1912 con il titolo S.A.R. il Principe Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi. La spedizione in Karakorum e nell’Himalaya Occidentale, 1909, sono ancora oggi l’emozionante testimonianza di un’impresa d’altri tempi.

Il gruppo di alpinisti raggiungerà quota 7498 metri, al Bride Peak (Chogolisa) nel Karakorum, ma non riuscirà a scalare il K2, la seconda cima più alta del mondo, a quei tempi ancora inviolata. Questa montagna è per De Filippi, medico e fisiologo, una specie di laboratorio naturale per mettere alla prova la resistenza dell’organismo umano alle condizioni estreme dell’altitudine. Lo scoramento a causa del fallito tentativo di raggiungere la cima è evidente: «Non si può sperare di portare a termine una salita così lunga e terribile, quando già muovendo i primi passi si incontrano difficoltà di questa portata […]. È probabile che nessuno salirà mai sul K2 […] Per la prima volta mi sono trovato davanti a una montagna della quale nessuna parete è accessibile […] Impossibile!»; ed ancora ribadisce: «Il fatto è che questi sono monti ai quali non si può guardare senza turbamento, sfingi colossali che sembrano racchiudere misteri paurosi; e dinanzi a esse riproviamo forse la consapevolezza della nostra debolezza nell’impari duello che deve aver turbato l’animo dei primi salitori delle Alpi».

Di quella spedizione rimangono i vari toponimi attribuiti dai nostri alpinisti alle vette e ai ghiacciai attraversati, come il ghiacciaio De Filippi, che ancora oggi compare sulle carte topografiche della regione del K2.




Le montagne delle luna

Per secoli i bagliori lontani che si potevano ammirare dalle foreste pluviali e dalle savane nel cuore dell’Africa sembravano ai viaggiatori occidentali enigmatiche visioni. Fu lo studioso greco Claudio Tolomeo, padre della geografia, a tracciare per primo nel ii secolo nelle sue mappe le Lunae Montes, le montagne della luna. Secondo la sua interpretazione le nevi di questo massiccio montuoso, nel cuore del continente nero, con le loro acque di scioglimento avrebbero alimentato i laghi sorgentiferi del Nilo.

Passarono molti secoli prima che si potesse trovare una risposta ai diversi quesiti dell’orografia e dell’idrografia del grande fiume africano. E occorrerà attendere la prima metà dell’Ottocento, con le grandi spedizioni alla scoperta delle sorgenti del Nilo, per avere notizie delle Montagne della Luna. Il primo a segnalare la presenza di questa catena montuosa è l’italiano Romolo Gessi, che nel 1876 è impegnato nell’esplorazione delle coste del lago Alberto. Quando la avvista in lontananza ne fornisce una suggestiva descrizione: «Come una strana visione di monti nevosi, quasi galleggianti ed evanescenti nel cielo». Sono le montagne che gli indigeni chiamano Ruwenzururu, “luogo della neve”. Le stesse montagne che nel 1888 Henry Stanley, pur senza raggiungere le cime, chiamerà Ruwenzori.

«Il vento soffiava forte da est. Tutto attorno era il bagliore bianco della nebbia, impenetrabile allo sguardo. Ognuno aveva fisso nell’animo il pensiero della punta più alta, distante poche centinaia di metri, ma invisibile. E aspettarono, tendendo gli occhi ostinatamente a nord. In un’ora e mezzo poterono solo distinguere, per pochi istanti, tra le nebbie assottigliate, gli incerti contorni della vetta maggiore». Così De Filippi descrive il momento cruciale di una delle più audaci imprese compiute dagli esploratori italiani su una delle montagne più insidiose e affascinanti dell’Africa. Una catena montuosa avvolta dalle nebbie, dal clima variabile e piovoso, composta da decine di cime superiori ai 4000 metri d’altitudine, fra le quali svetta la Punta Margherita con i suoi 5125 metri. La spedizione parte il 16 aprile 1906 da Napoli, arriva a Mombasa il 3 maggio e raggiunge il lago Vittoria; da qui comincia il percorso a piedi verso la base delle montagne. La carovana, organizzata nei minimi dettagli da Luigi di Savoia, è imponente.

Man mano che la pista si inerpica sulle pendici la temperatura si abbassa fin quasi allo zero, e il paesaggio per gli alpinisti si fa più familiare. Raggiunti i 4000, il duca decide di fare campo base. A partire da qui verranno fatte tutte le escursioni che risaliranno le più importati vette della catena ammantate dai ghiacciai del Ruwenzori. Tra queste il monte Baker di 4873 metri e i picchi scoperti e battezzati dal duca degli Abruzzi: Wollaston (4659 metri), Moore (4654 metri), Semper (4829 metri) ed Edoardo (4873 metri), fino al massiccio del monte Stanley, dove Luigi Amedeo raggiunge i 5125 metri della punta più alta del Ruwenzori, dedicata quindi alla regina Margherita. Nel complesso la spedizione rileva la bellezza di 18 cime, fissandone l’esatta posizione topografica e l’altitudine. Dopo questa spedizione sulle mappe della catena montuosa rimarranno i toponimi a ricordo dell’impresa degli italiani: punta Cagni, punta Sella, punta Vittorio Emanuele, punta Bottego, punta Jolanda, monte Gessi.







* testo tratto da: Stefano Mazzotti, 2011 “Esploratori perduti. Storie dimenticate di naturalisti italiani di fine Ottocento” Codice Edizioni, Torino


** Direttore del Museo civico di Storia Naturale di Ferrara

Xenophora pallidula

di Sabrina Foschini




Gli architetti hanno guardato alla conchiglia, copiato la sua simmetria e le parabole delle sue volute, la perfezione delle sue cupole, poggiate in cima agli edifici, l’armonica ascesi delle sue spire.

Hanno guardato alla geometria impeccabile dei nautili, alle ellissi miracolose, hanno scanalato le colonne come gusci di bivalve, e modellato fontane e fonti nella forma della capasanta, che da tempo viaggiava sulla spalla del pellegrino, tazza di mare e regale piatto d’elemosina, ciotola che ha bagnato il capo di Cristo.

Gli architetti hanno imparato dalle conchiglie, obelischi tortili, pinnacoli sopra le cattedrali barocche e chiocciole per salire, spirali che sommano un piano all’altro senza recidere mai il collegamento, il pontile che t’innalza senza fatica e senza il volo.

Ma gli architetti quando copiavano le conchiglie, si saranno fermati a pensare che sono case?

Case di mare… Case di pazienza e d’acqua…

Le case più belle del mondo, sono senza mani.

Case che viaggiano, mosse dalle onde, spodestate dai fondali, case che s’aggrappano ai carapaci delle tartarughe, alla scorza rocciosa dei cetacei o che abbrancano gli scafi delle navi e raggiungono altri continenti, colonizzando spiagge nuove per lo stupore inedito dei raccoglitori.

Case bianche che hanno un ombelico e un labbro corneo che s’arriccia sull’imboccatura, anatomie umane prestate alla magia, al capriccio della grazia. Case che crescono come un respiro, che aumentano di volume, che s’addensano granello su granello e si allargano a contenere l’evoluzione e la maturità della loro carne molle, il loro vulnerabile cuore.

Perché sono state case ma prima ancora ossa, corazze impareggiabili, scheletri come gioielli, tanto belli da essere portati sopra il corpo, esibiti sulla pelle e non più sepolti, nel fondo delle membra, come il nocciolo duro che sostiene noi uomini, fatti di vertebre senza bellezza.

Case che noi stessi portiamo al collo e che ci portiamo all’orecchio per sorprendervi il mormorare del mare rimastovi impigliato, quella musica che è il loro lasciapassare di creature marine, il ricordo di un mondo originario, nell’incavo di un’assenza. Case che ci portiamo alla bocca e che suoniamo come i corni spaccati degli animali di terra, con un lamento basso e remoto, una voce inaspettata, un regalo asciutto e straniero dal fianco del regno muto.

Ci sono conchiglie che filano il corredo dei re, con bave di bisso a foderare l’ingresso delle loro valve e a nascondere in una cortina, la bocca vulnerabile del mollusco.

Ci sono conchiglie abbandonate che vengono occupate da altri animali, paguri sovversivi che si appropriano degli edifici inabitati e che poi traslocano in una dimora più grande e confortevole se l’incontrano vuota e senza proprietario sul loro obliquo cammino.

Ci sono conchiglie che ne abbracciano altre, le attraggono a sé allo stesso modo del “cigno appiccica” della fiaba e le inglobano nel loro corpo, facendole diventare parti della propria costruzione, come la mia prediletta, la xenophora pallidula, la conchiglia bianca, portatrice di stranieri che incolla sulle sue punte spinose, i trofei delle altre, i gusci raccolti: bandierine di gran pavese o incauti prigionieri…

Anche il tempio della mia città è una gigantesca candida xenophora, con la chiesa trecentesca inghiottita e conservata nel corpo marmoreo di Leon Battista Alberti, un cuore sovrapposto, un respiro più antico nel fiato quattrocentesco del marmo. Ma poi, a ripensarci, tutto quanto è rapina, se i marmi stessi erano stati rubati ad altre chiese, pezzi antichi dalla basilica di Sant’Apollinare e pietre staccate ad altre genti, preghiere lontane mescolate a quelle che ancora si dovevano fare.

E il marmo, la montagna, che tra le sue vene conserva l’impronta fossile delle conchiglie antiche, il segreto di un mondo bagnato, un regno natante e oscillatorio, è stato anche lui parte del mare, parte di quel mistero maggiore, di quell’alchimista compiuto, che ha scoperto il segreto per trasformare l’acqua in oro.

Allora, andando a ritroso nell’ombelico del tempo, nell’infanzia del mondo, arriviamo alla canzoncina della scuola, al riavvolgersi del nastro fino alla sorgente e possiamo dire alla fine di un percorso che cerca il creatore primario, la mano originaria del demiurgo, che anche per fare un tempio ci vuole il mare.

Perdersi nel Bianco - l’orlo dei colori

di Francesco Caggio




Il bambino muove lentamente le sue pupille, con circospezione, sospetto, timore e diffidenza; le tiene quasi ferme in una vibrazione tesa sull’orlo dei suoi piccoli occhi, lo ha detto anche l’oculista che sono piccoli.

Chissà fino a dove possono vedere e fino a dove possono arrivare per cercare di vedere; certo è che ora deve stare molto attento perché sono piccoli i suoi occhi, forse può vedere solo una cosa per volta.

Per questo lascia solo che le pupille si aggirino furtive e curiose, allertate e vigili sul confine della sua visione, non c’è altro…un quadrato sghembo che trattiene i suoi piccoli occhi contro, addosso e mai riposati sulla distesa ben riquadrata della garza.

La garza è così gentile, tenera e delicata, gli fa tenerezza; non piange pensando che la garza è lì, più immobile e ferma di lui e che forse lo protegge e gli salva gli occhi e che glieli riposa con il suo bianco così lievemente mosso. E’ zigrinato, ricco di filamenti, filamentoso, erba muschiva di un lavoretto di Natale delle suore, quel bianco che tace al tessuto vibrato e sospeso dei suoi pensieri.

Sì, un bianco silenzioso, molto tenue e fermo, pare che sia possibile persino fare un giretto immemore lungo i suoi bordi non così ben tagliati, un po’ sminuzzati: c’è come un’effusione che li circonda, come una muffa o un muschio, sì un muschio bianco di Natale, che fa il velo più prossimo e rattenuto sulle pupille del bambino, spalancate certo, eppure così divaganti e assorte dalla profondità di quella unicità totale, di quella totalità pur discretamente ricamosa e impaludata.

Dopo tanta attesa -che lievi sudori sull’orlo delle ciglia (sudori bianchi anch’essi?)- di una visione che possa deporre la tensione degli occhi tesi e rapiti a scrutare una profondità che oscilla fra essere contro le pupille e poi lontana e inabissata oltre le lenti nascoste e dimentiche, il bambino osa con un dito tastare la superficie amorosa e atterrita della garza che tace e tace ancora; scopre che è spessa, che è gonfia di bambagia e che ci sono tanti bianchi che si sostengono in uno spessore invalicabile; allora non resta che perdersi e mantenere fisso lo sguardo nella fuga danzata delle filigrane e divagare scoprendo che dopo un po’, sarà per fatica?, c’è solo un grigio che depone verso un nero.

Inconsolabile assenza anche per quel giorno di un piccolo sollevamento di un angolo di un lembo al colore che si sottrae.

E il bambino non fa che aspettare l’ora per spostare solo di un po’ la garza, saprà poi che resterà abbagliato dal subito del bianco accecante del primo colore che coglierà e chiederà, prima con la sua mano a conchiglia senza alcun colore, la protezione del bianco silenzioso e tenero della garza, un riparo senza guizzi e vita.

Asservito e perso nel suo spessore ingannevole.

E così egli costruisce i suoi silenzi e non avrà più parole.

Gli resterà in dono l’incanto imprendibile dell’apparizione di ogni traccia di colore; apprendistato di un cieco allo splendore voluttuoso dei colori che non si possono parlare.

Si accarezzano solo, sapendo che sono oltre il bianco che può trattenerli per giorni e anni.

Il giovane ragazzo poi un giorno aprirà una finestra e sorpreso griderà: “Guardate qui, è bianco”, “Ma sei sicuro?”, “Venite a vedere”, “Ma non si vede niente”.

La nebbia stava -si la nebbia sta e forse anche il bianco sta- lì davanti agli occhi e se stava, occupava il mondo intero e lo copriva e lo oscurava e lo obliava nel suo biancore di folate spesse e incuranti dello sciogliersi del turbinio accolorato del mondo.

Non c’era che un possibile cammino nella propria ombra sbiancata in un altro bianco così assorbente da perdere la pelle ormai fatta pastosità di un orizzonte arruffato e disfatto nei suoi confini. Accorgersi di avere un‘anima, un doppio fatto di un soffio che perde la pelle e trascina i passi a tentoni perdendosi in smarrimenti indefiniti e in rimpianti già fatti vapore sull’orlo del cuore nell’avanzare inarrestabile del tempo…

Nella sera quel bianco luminoso persiste senza requie come le apparizioni del catechismo e ogni volta il ragazzo si chiede dov’è finito il volume del suo corpo. Fantasia di avere avuto un corpo, di poterlo lasciare e come un peplo perderlo tornando a casa, verso i colori fastosi della casa luminosa e concreta, per amori non ancora avuti ma, già consunti dalla nostalgia sulle strade di paradisiaci purgatori di anime bianche che sussurrano nel biancore tramato di voci promesse di ritorni; epifania della musica sull’orlo del bianco che svuota. Bisogno di astratti colori e appoggiarsi alle note.

Declinare verso Orfeo ed Euridice con tutto il biancore lucoreo dell’essere richiamati prima di sparire nelle nebbie del non dichiarato amore.

Scoprire che andare verso il nord è un viaggio dentro l’introverso, il pozzo tramato di muffe antiche di neve dell’anima fatta da cirri affolati di nebbia sbiancata…certo che faceva freddo in quella stanza subito dopo il Duomo, ogni vero Duomo è sol che bianco. Anche a Venezia un albergo era bagnato di nebbia a novembre di un bianco che fremeva sui muri di conchiglia. Era denso il cammino dei passi senza rumore alcuno che foravano il bianco in una rapinosa fuga senza perimetro della nebbia nella laguna in attesa del gelo per fermarsi attonita e raccolta nel fondo, proprio nel fondo, tanto sotto la lastra del panico ghiacciato del mattino con un’alba senza ore: le finestre erano icone, sacralità di un’accecante visione; pura apparizione. Invocazione al sacro dal bianco sporco per ventimila lire delle lenzuola; era l’abisso della laguna in una stanza pallida di muffa adriatica sbiancata. Chiamata ad un attacco di febbre con convulsioni per rimanere nel sudore bagnato, muco dei muri marini e lasciarsi andare alla cecità dei risvolti amorosi,senza ritorno alcuno; aspirare il ghiaccio della finestra bagnata dalla promessa di nevi che aspettano un arrivo definitivo là dove stanno eterne e silenti.

Gioire dentro, ma proprio dentro per la scomparsa quieta e rasserenante del concreto, di ciò che urta, spinge, intrude.., il bianco assorbente della nebbia avvolge e perde, confonde e consola perché si è soli… per questo si lavora la macchia di inchiostro sul piano assorbente della carta che la mangia, è troppo sola, indifesa e senza appello, la macchia nella sua presenza disorientata .

Il ragazzo solca la memoria dei suoi occhi lungo le strade della solitudine e dell’eventuale non ritorno, è solo nel bianco della nebbia che trattiene il gelo della neve a venire, il torrente è proprio lì, scorre e sta oppresso, non accoglie nessuno, lo specchio è opaco. Per favore: “Venite a vedere, se vedete” che, in questi lievitanti innumerevoli e scorrevoli piani del bianco che non lascia spazio alla presa, ci sono io, vivo e non solo fantasia di un richiamo e di un appello

“Venitemi a prendere, se riuscite a vedere”, vi aspetto, ma non mi muovo, la nebbia mi assorbe in pensieri a cui devo dare colore pena il mio lento spegnermi con l’alba.


Ora che l’uomo non ha più le bende e vede poco, sempre meno e fa mondani viaggi verso il nord

…solo perché l’abbaglio di una cascata di quel che fu e sarà un leggero torrente silente e agghiacciato,

…solo perché la distesa serena e senza scampo e potente nella sua interezza di un ghiacciaio,

fanno dei suoi piccoli occhi incantati, lenti, discreti, analitici scrutatori della precisa nettezza delle distese di bianco che danno vita ai colori in un’epifania intollerabile alla sua timida visione. Pur si allarga la visione e lo scuote a vita, alla vita delle cose così concrete e vivide e sorprendenti a cospetto del bianco; osare guardare il bianco è avere il coraggio di tornare ai colori.

E può senza alcun timore anche velarsi di un piangere discreto e nascosto: il pianto resta comunque bianco e fa tenda sfilacciata al turbinio rovinoso dei colori tutti.

E’ così in tanti dipinti: c’è sempre un filo, un grumo di bianco nelle lacrime dei dipinti che l’uomo guarda, a partire dall’incidenza spiazzante di un solo, solo uno!, tocco di bianco.

Tocco di bianco e splendore dell’esserci.

L’adulto ama ancora oggi tastare e guardare, rigirare sotto le mani e gli occhi le garze che gli tremano ancora un po’ fra le mani esitanti; sono sconosciute e inerti, tele per icone consunte fra le mani dell’attesa di una parola possibile per quello che il bianco occulta e offre all’uomo ogni volta rapito e tradito dal suo richiamo assoluto.

Senza compassione alcuna.

Ganzfeld o del bianco concettuale

di Daniele Torcellini



 “E’ la nuova austerità”, disse. “Imballo insipido. Mi attrae. Mi sembra non soltanto di risparmiare soldi, ma anche di dare un contributo a una sorta di consenso spirituale. E’ come la Terza guerra mondiale. E’ tutto bianco. Ci porteranno via i colori per usarli nello sforzo bellico” 
Don Delillo, Rumore Bianco.


C’è bianco e bianco. Come in quel gioco che si fa tra ragazzi. “Che colore è questo? E questo? E questo?” si chiede solerti, indicando ripetutamente oggetti più o meno bianchi nelle vicinanze dell’interrogato che, annoiandosi e perdendosi nel bianco monocorde delle risposte, alla fatidica e inaspettata domanda “Cosa bevono le mucche?”, si lascerà andare ad un improbabile “Il latte”.
La mente si è persa nel bianco e la risposta più congrua che permette di dare deve essere bianca. L’acqua non è bianca. Il latte sì.

Perdersi nel bianco. Oltre ogni bianchezza visibile - “Dico che un pezzo di carta è bianco puro: e anche se, mettendo della neve vicino al pezzo di carta, questo apparisse grigio, tuttavia nel suo ambiente normale continuerei, con ragione, a chiamarlo bianco e non grigio chiaro”. Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sui colori - il bianco ideale è nella perdita. Di chroma. Di senso. Di informazioni. Di peso. Di spazio. Di visus. Di sé.

Derek Jarman, regista, scenografo, pittore e scrittore inglese, nel suo saggio, diario, raccolta aneddotica e poetica Chroma, scritto quando la malattia lo stava rendendo cieco - quando stava entrando nel nero - dedica il primo capitolo al bianco. “1919. Il mondo è in lutto” - scrive - “Kasimir Malevič dipinge Bianco su Bianco. Un rito funebre per la pittura”. Una perdita. Di realismi? Di realtà? Di prospettiva per un futuro post-bellico?

Ma se c’è una perdita che più di ogni altra esprime il concetto di bianco, questa perdita è quella che può essere vissuta nel Ganzfeld. Campo totale.

Il Ganzfeld è la condizione sperimentale di chi si trova in un ambiente sensoriale totalmente omogeneo. Un campo visivo - totale, per l’appunto - in cui nessun punto si distingue dall’altro. Bianco su bianco. E bianco accanto a bianco. Una condizione a cui raramente è dato verificarsi nella vita reale. Visivamente può essere ottenuto applicando agli occhi due semisfere ricavate da una pallina da ping-pong, in presenza di una luce fortemente diffusa. Il corrispettivo acustico è l’ascolto di un rumore bianco, un rumore cioè che contenga tutte le frequenze dell’udibile. Come il colore bianco che, dopo gli esperimenti di Newton, contiene tutte le frequenze dello spettro del visibile, con uguale intensità. Ché a saperle dosare bene, e Christiaan Huygens fu tra i primi a dirlo, anche solo due colori - un giallo e un blu - possono dar luogo al bianco. Qui il problema può cambiar di segno ed essere affrontato dal lato di chi guarda, piuttosto che da quello - la luce - di ciò che permette la visione. Ed ecco che perché ci sia bianco, occorre che i nostri fotorecettori del colore - tre, sommariamente sensibili al rosso, verde e blu - ricevano appropriati stimoli da lunghezze d’onda di bande corrispondenti ai lori picchi di interesse. Questo nell’occhio, perché poi nella mente le certezze si frantumano e ciò che è misurabile fuori di noi, non lo è più così facilmente dentro, e appare bianco anche dove bianco non è. O non appare bianco anche se bianco è. Come il pezzo di carta o la neve di Wittgenstein. Il primo sicuramente tendente al grigio, la seconda al blu. Ma bianchi nei loro rispettivi contesti. Perché sì, la percezione, Edwin Land lo insegna, è una questione di rapporti, di differenze. Tra ciò che osservo e ciò che gli sta attorno.

Il bianco “più bianco del bianco” non è dunque quello della carta o della neve, né quello del bucato della pubblicità. E non è nemmeno quello dei sub-pixel del monitor su cui scrivo - rossi verdi blu alla massima intensità - tarati da un secolo di ricerche colorimetriche sui miei fotorecettori affinché io veda bianco.

Il bianco “più bianco del bianco” è il Ganzfeld. E il Ganzfeld è bianco, concettualmente. Nel suo negare il contesto. Anche se può essere di qualunque colore - come nei delicati e immersivi magenta e viola delle aperture di James Turrel, che già David Katz, negli anni trenta del Novecento, sperimentava per indagare i limiti della percezione - la condizione perché si abbia un Ganzfeld è che nessun punto del campo visivo si distingua dall’altro e non che il campo visivo sia bianco. Ed è proprio in questo non-distinguersi che si manifesta alla mente il bianco. E con esso la perdita. Una sensazione prima che una percezione.


"Sconfinato come deve apparire un uovo dall’interno; sconfinato perché senza giunzioni, continuo, vuoto, ininterrrotto."
David Batchelor, Scenari del bianco in Chromophobia


L’effetto del Ganzfeld sembra essere quello di una nebbia densa, vicina e impenetrabile, all’interno della quale si perde ogni riferimento spaziale. Non si percepiscono superfici, bordi, oggetti. Non si distinguono distanze, forme, dimensioni definite. Nulla di illuminato, nulla in ombra. Quand’anche colorato, le tinte scolorano, si indeboliscono perdendo chroma a favore di un grigio medio. Il Ganzfeld è così omogeneamente privo di stimoli che conduce ad una cecità. Porta al nero. E’ così concettualmente bianco da accecare la mente. E una mente accecata si perde nelle allucinazioni.

C’è bianco e bianco? No. La mucca dei Pink Floyd beve il Ganzfeld.

Bianco Vermeer

di Massimo Pulini



"Come una lampadina vista tra le lacrime"
Silvio D'Arzo


Le case sono grandi strumenti ottici.

L'insonnia protrattasi fino all'alba predispone il pensiero verso questa analogia.

Fermo nel letto ammiro la forza permeante del sole, ancor prima del suo apparire all'orizzonte, in quella fase in cui il barlume avanza dentro le scatole dell'uomo come un alito che senza fretta deterge le cose dalla ganga dell'ombra. Io stesso sono nella soluzione di sviluppo ed emergo dal buio che fino a poco fà possedeva tutta la mia forma. Poi un primo fascio di luce diretta colpisce un punto bianco del soffitto, varcando la soglia di una finestra che svolge un ruolo di filtro. Attraverso il cristallino si distribuisce allora un chiarore più acuto e vibrato nella camera oscura e anche le stanze senza finestre vengono raggiunte dal riverbero insinuante di quella potenza silenziosa e intangibile. I raggi sono tentacoli che dal soffitto discendono a terra, frugando la preda nella tana. Monete bianche sul muro, che aumentano di numero e valore facendosi strada tra le foglie della bignonia.

Sembra di comprendere meglio anche il bianco di Johannes Vermeer stamane, quel colore che non resta fermo nel suo perimetro, nella tarsia assegnatagli. Una componente prismatica che irradia e risucchia come un abisso di assoluto.

Dipinti che ragionano sul lume e sull'eco rifrattivo di stanze e pareti, di oggetti e presenze. Dipinti che fanno del bianco un diapason intorno al quale si intonano alti gli scalini delle altre tinte, i terrazzamenti che alludono alle forme. La superficie abbacinata di un foglio di carta, lo specchio convesso di una brocca, lo smeriglio di una finestra, la pupilla di un occhio sono i cardini cromatici estremi dai quali sgorga una supremazia del colore sul dettaglio. La leggera ma percepibile espansione luminosa che ogni tinta svolge entro il campo che le pertiene, sancisce una vittoria della luce, che è riuscita ad eliminare ogni particolare successivo, chiosando perentoriamente la visione.

Senza esperienza lenticolare non sarebbe stata possibile una tale pittura.

Si percepisce un diaframma vitreo e scintillante che si frappone tra l'autore e il modello in posa. Le case, le cose e le figure sono in ferma perfetta, solo la luce risulta non completamente arrestata. Se quel bianco non fosse estremo e non avesse fagocitato i perimetri grafici della forma tutto sarebbe immobile, illustrato e, forse, morto.

La pittura di Vermeer diviene invece una calibrata macchina del tempo luminoso. Tacche di luce ne scandiscono il corso entro l'orologio lento dello spazio domestico. Allora la donna che versa il latte, l'astronomo che tende la mano al globo, la giovane gravida che legge una lettera, diventano meridiane viventi.

Agendo nella scena geometrica i corpi cedono dettagli di verità per divenire volumi solidi, ammorbiditi tuttavia da una luminescenza che sembra venire dal loro interno.

Una sorta di diacromia, di retroilluminazione del colore, viene immaginata tre secoli prima della sua nascita elettrica o una scatola prismatica permetteva già di far convergere, sul lato vitreo di un cubo ligneo, un riverbero di visione?*

La scienza di Galileo, sviluppata dai maestri vetrai olandesi e veneziani, ha spinto ad interpretare anche il nostro corpo come macchina ottica. L'occhio è dunque una finestra, un'apertura che immette luce dentro lo spazio dei nostri pensieri. La metafisica luminosa in Vermeer avvolge le forme con un'aria amniotica che rende onirica ogni visione.

Anche i più semplici ritratti, grazie a questa sfocatura che richiede sintesi, acquistano un traslato spaziale e temporale, una separazione dal "qui ed ora" che li spinge in una quarta dimensione, quella del ricordo o del soprappensiero. L'estraniarsi con la mente dal presente non è forse manifestato da un leggerissimo strabismo? Da una temporanea perdita della messa a fuoco? Per questa ragione la "Ragazza con l'orecchino di perla" dell'Aia, la "Donna col cappello rosso" di Washington o la "Giovane con manto grigio", del Metropolitan di New York, visibilmente segnata dalla sindrome di Down, divengono persistenze luminescenti, fosfeni che finiscono per impressionare la nostra più recondita retina.



26 agosto 2012





Nota:

* Molte opere olandesi e fiamminghe della stessa epoca alludono a piccoli ma articolati teatri ottici ed estesa risulta ormai la bibliografia sull'argomento, a partire dalle prime riflessioni di Seymour Charles ("Camera oscura in una stanza piena di luce", in Art Bulletin 46, 1964) e di Schwarts Heinrick ("Vermeer and the Camera Obscura." in Pantheon 24, 1966). La celeberrima "Prospective box" di Samuel van Hoogstraten, conservata alla National Gallery di Londra o quella attribuita a Hendrick van Vliet, del Nationalmuseet di Copenhagen, d'altro canto ne sono la prova tangibile. La grandangolare "Veduta di Delft" del geniale Carel Fabritius, sempre della National Gallery, attesta in modo inequivocabile l'uso delle lenti. Non è dunque più blasfemo pensare che accanto al cavalletto di Vermeer ci fosse un pozzo ottico orientato sul suo palco di posa, una scatola costruita con lenti, specchi e un lato di vetro sabbiato, che permetteva una esperienza di visione inedita, irradiata dalla rifrazione. Qui non si parla di agevolazioni canalettiane del disegno, utili a tracciare le linee di una veduta labirintica veneziana, si intende invece l'apertura, di nuove percezioni del mondo e del visibile, acquisite con la nascita della neonata scienza ottica. L'espansione sensoriale data dall'applicazione e dall'uso combinato delle lenti, con tutto l'apparato di deformazioni e di concentrazioni luminose offerte dai prismi e dagli specchi, dovette costituire una frontiera sconvolgente per un artista del XVII secolo. È proprio quel mondo enfatizzato dalla luce a venir trattenuto dalla pittura di Vermeer e si deve credere fosse divenuto quello il suo vero modello stilistico.