venerdì 26 ottobre 2012

Xenophora pallidula

di Sabrina Foschini




Gli architetti hanno guardato alla conchiglia, copiato la sua simmetria e le parabole delle sue volute, la perfezione delle sue cupole, poggiate in cima agli edifici, l’armonica ascesi delle sue spire.

Hanno guardato alla geometria impeccabile dei nautili, alle ellissi miracolose, hanno scanalato le colonne come gusci di bivalve, e modellato fontane e fonti nella forma della capasanta, che da tempo viaggiava sulla spalla del pellegrino, tazza di mare e regale piatto d’elemosina, ciotola che ha bagnato il capo di Cristo.

Gli architetti hanno imparato dalle conchiglie, obelischi tortili, pinnacoli sopra le cattedrali barocche e chiocciole per salire, spirali che sommano un piano all’altro senza recidere mai il collegamento, il pontile che t’innalza senza fatica e senza il volo.

Ma gli architetti quando copiavano le conchiglie, si saranno fermati a pensare che sono case?

Case di mare… Case di pazienza e d’acqua…

Le case più belle del mondo, sono senza mani.

Case che viaggiano, mosse dalle onde, spodestate dai fondali, case che s’aggrappano ai carapaci delle tartarughe, alla scorza rocciosa dei cetacei o che abbrancano gli scafi delle navi e raggiungono altri continenti, colonizzando spiagge nuove per lo stupore inedito dei raccoglitori.

Case bianche che hanno un ombelico e un labbro corneo che s’arriccia sull’imboccatura, anatomie umane prestate alla magia, al capriccio della grazia. Case che crescono come un respiro, che aumentano di volume, che s’addensano granello su granello e si allargano a contenere l’evoluzione e la maturità della loro carne molle, il loro vulnerabile cuore.

Perché sono state case ma prima ancora ossa, corazze impareggiabili, scheletri come gioielli, tanto belli da essere portati sopra il corpo, esibiti sulla pelle e non più sepolti, nel fondo delle membra, come il nocciolo duro che sostiene noi uomini, fatti di vertebre senza bellezza.

Case che noi stessi portiamo al collo e che ci portiamo all’orecchio per sorprendervi il mormorare del mare rimastovi impigliato, quella musica che è il loro lasciapassare di creature marine, il ricordo di un mondo originario, nell’incavo di un’assenza. Case che ci portiamo alla bocca e che suoniamo come i corni spaccati degli animali di terra, con un lamento basso e remoto, una voce inaspettata, un regalo asciutto e straniero dal fianco del regno muto.

Ci sono conchiglie che filano il corredo dei re, con bave di bisso a foderare l’ingresso delle loro valve e a nascondere in una cortina, la bocca vulnerabile del mollusco.

Ci sono conchiglie abbandonate che vengono occupate da altri animali, paguri sovversivi che si appropriano degli edifici inabitati e che poi traslocano in una dimora più grande e confortevole se l’incontrano vuota e senza proprietario sul loro obliquo cammino.

Ci sono conchiglie che ne abbracciano altre, le attraggono a sé allo stesso modo del “cigno appiccica” della fiaba e le inglobano nel loro corpo, facendole diventare parti della propria costruzione, come la mia prediletta, la xenophora pallidula, la conchiglia bianca, portatrice di stranieri che incolla sulle sue punte spinose, i trofei delle altre, i gusci raccolti: bandierine di gran pavese o incauti prigionieri…

Anche il tempio della mia città è una gigantesca candida xenophora, con la chiesa trecentesca inghiottita e conservata nel corpo marmoreo di Leon Battista Alberti, un cuore sovrapposto, un respiro più antico nel fiato quattrocentesco del marmo. Ma poi, a ripensarci, tutto quanto è rapina, se i marmi stessi erano stati rubati ad altre chiese, pezzi antichi dalla basilica di Sant’Apollinare e pietre staccate ad altre genti, preghiere lontane mescolate a quelle che ancora si dovevano fare.

E il marmo, la montagna, che tra le sue vene conserva l’impronta fossile delle conchiglie antiche, il segreto di un mondo bagnato, un regno natante e oscillatorio, è stato anche lui parte del mare, parte di quel mistero maggiore, di quell’alchimista compiuto, che ha scoperto il segreto per trasformare l’acqua in oro.

Allora, andando a ritroso nell’ombelico del tempo, nell’infanzia del mondo, arriviamo alla canzoncina della scuola, al riavvolgersi del nastro fino alla sorgente e possiamo dire alla fine di un percorso che cerca il creatore primario, la mano originaria del demiurgo, che anche per fare un tempio ci vuole il mare.