venerdì 26 ottobre 2012

L’albume e l’albedo. Oggetti e luce in Piero della Francesca

di Alessandro Giovanardi



Una striscia di bianco si schiude nella veste della Madonna del parto: losanga irregolare di mandorla dolce, più chiara e preziosa del nobile ermellino, succo di uovo che si sguscia in un lembo di terra difeso dagli angeli. Un padiglione custodisce il parto dell’albedo senza tramonto, come il tabernacolo l’ostia immacolata. Ferma presenza del cerchio nel centro come invece è incerto il lunare padiglione del Sogno di Costantino ad Arezzo. Il bianco del sole non è quello della luna, ma «qui la luna partorisce il sole». Colore della giovinezza rovesciato nella sapienza canuta della barba di san Sigismondo, nell’eloquenza silenziosa dei marmi purissimi nel Tempio di Rimini. Anche la stanza chiara dove s’inginocchia il Malatesta è una veste di lino che si ribalta e l’interno dipinto ha le forme del fronte reale: un’aula vegliata dal quieto levriero dal bianco manto e con le orecchie basse. Il gemello scuro, all’erta, è sovrastato dalla limpida mole di Castel Sismondo che gareggia in nitore con le nubi e con la lana. Ma il volto del Santo che fu antico re e martire e forse maschera per un imperatore recente è affratellato ad altre figure di sapienza: il Salomone aretino, il giovane Salvatore battezzato e quello provato e incrollabile della Resurrezione di San Sepolcro. Volti frontali, come quelli delle icone, dove l’uovo spezzato nel rito diviene oro e fiumi di albume che si dipartono dal viso simile a corsi d’acqua vivificanti per farsi barbe bipartite e ciocche suddivise come cartografie del cosmo. Nel Battesimo Cristo è un tronco chiaro «piantato presso corsi d’acqua», pilastro di luce iniziatica simile all’albero frondoso che gli è cresciuto accanto: bianco come acqua e luce si ripete nel fiume, raddoppia se stesso e s’inverte come in uno specchio, sospeso fra due cieli tersi.

In principio difatti è la luce. Così è all’inizio della pittura sacra. Sulla tavola minuziosamente levigata viene spalmato uno strato di gesso bianchissimo; primo lume creato, tabula rasa su cui tutto sarà scritto. L’albedine in sanscrito è sattva: materia originaria, frutto iniziale della manifestazione, luce che fonda l’esistenza universale. Tra il legno e il gesso una pezza di lino chiaro – bianco – suggerisce la struttura e il movimento primordiale dell’universo. È fascia d’infante innocente, benda pietosa di morto, sudario e tovaglia d’altare: corporale o antimension. Il colore si prepara con la rottura di un uovo. Il tuorlo giallo viene separato dal bianco e inciso. Gli ultimi tocchi si danno con la biacca pura o con l’oro: lumen de lumine, alla fine come al principio. L’albedo impalpabile si raccoglie solo nell’albume, come la quint’essenza indicibile nella densità del reale. Le tavole di Piero s’iscrivono su un rito tale che non richiede consapevolezza ma precisione di gesti. Oggetti come disegni di geometrie metafisiche, numeri di matematiche contemplative: sono frutti della bianca luce originaria che li rende emblemi e metafore, simboli e segni. Lume che penetra il vetro senza spezzarlo, come lo Spirito l’imene intatto della Madonna di Senigallia: «dardo sidereo che ingravida un’adolescente iniziata nel segreto del Tempio». Traslucido pulviscolo presago degli interni di Vermeer: bianco fiammingo figlio di un esoterico candore toscano, di una pitagorica scienza rivelata, «non licet calato sul mistero». Il velo della Madre ha la trasparenza del vetro: la tradizione ne fa il perizoma del crocifisso. Il cesto di vimini colmo di pezzuole senza macchia – segno di parto indolore e miracoloso – è ventre puro della Vergine, fiscella scirpea che trasporta Mosè attraverso le acque del Nilo. Splendida è poi la bianca rosa, sbocciata in mano a Cristo, integra bellezza del Figlio. Ma il fiore chiaro, multipetalo mai si dà senza spine e passione: sacrificio dell’Agnello incorrotto, sgozzato fin dalla fondazione del mondo. Il Salvatore – vegliardo travestito da infante – porta candidi panni e un rosso corallo di sangue: il vino e l’acqua, il bianco e il vermiglio di una liturgia eucaristica. Qui veglia come un Buddha arcaico, mentre dorme abbandonato nella Pala di brera, accolto in una nicchia, immensa valva di marmo bianco, limpida misura d’architetto, scrigno di perla perfetta, priva di ombra o di male. L’ostrica – margarita – partorisce la gemma marina senza bisogno del seme maschile, frutto del lampo penetrato nel suo arcano: la perla è Verbo di Dio, anima d’uomo, nume nascosto, Regno dei cieli. È un seno di Madre sommerso, abissale, gnostico. Ma al centro Piero vi appende, infine, l’uovo di struzzo, filo a piombo di costruttore, araldo pasquale della rinascita, utero – vuole la leggenda –fecondato solo dalla luce dell’Astro. Ne portano memoria i volti di guscio delle Madonne di Sassoferrato, accolti dal manto come uova nel paniere, le stesse stese su un piano dal Casorati pierfrancescano.

Il ponte va però a ritroso verso il Giudizio dei mosaici di Chora, dove l’angelo porta via l’eone presente, ripiegato a spirale in forma di bianca conchiglia, mentre il Redentore è dentro una perla nuova iridescente, tuorlo d’oro egli stesso in un uovo azzurro e candido di luce.



Breve nota bibliografica:

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