venerdì 26 ottobre 2012

Ganzfeld o del bianco concettuale

di Daniele Torcellini



 “E’ la nuova austerità”, disse. “Imballo insipido. Mi attrae. Mi sembra non soltanto di risparmiare soldi, ma anche di dare un contributo a una sorta di consenso spirituale. E’ come la Terza guerra mondiale. E’ tutto bianco. Ci porteranno via i colori per usarli nello sforzo bellico” 
Don Delillo, Rumore Bianco.


C’è bianco e bianco. Come in quel gioco che si fa tra ragazzi. “Che colore è questo? E questo? E questo?” si chiede solerti, indicando ripetutamente oggetti più o meno bianchi nelle vicinanze dell’interrogato che, annoiandosi e perdendosi nel bianco monocorde delle risposte, alla fatidica e inaspettata domanda “Cosa bevono le mucche?”, si lascerà andare ad un improbabile “Il latte”.
La mente si è persa nel bianco e la risposta più congrua che permette di dare deve essere bianca. L’acqua non è bianca. Il latte sì.

Perdersi nel bianco. Oltre ogni bianchezza visibile - “Dico che un pezzo di carta è bianco puro: e anche se, mettendo della neve vicino al pezzo di carta, questo apparisse grigio, tuttavia nel suo ambiente normale continuerei, con ragione, a chiamarlo bianco e non grigio chiaro”. Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sui colori - il bianco ideale è nella perdita. Di chroma. Di senso. Di informazioni. Di peso. Di spazio. Di visus. Di sé.

Derek Jarman, regista, scenografo, pittore e scrittore inglese, nel suo saggio, diario, raccolta aneddotica e poetica Chroma, scritto quando la malattia lo stava rendendo cieco - quando stava entrando nel nero - dedica il primo capitolo al bianco. “1919. Il mondo è in lutto” - scrive - “Kasimir Malevič dipinge Bianco su Bianco. Un rito funebre per la pittura”. Una perdita. Di realismi? Di realtà? Di prospettiva per un futuro post-bellico?

Ma se c’è una perdita che più di ogni altra esprime il concetto di bianco, questa perdita è quella che può essere vissuta nel Ganzfeld. Campo totale.

Il Ganzfeld è la condizione sperimentale di chi si trova in un ambiente sensoriale totalmente omogeneo. Un campo visivo - totale, per l’appunto - in cui nessun punto si distingue dall’altro. Bianco su bianco. E bianco accanto a bianco. Una condizione a cui raramente è dato verificarsi nella vita reale. Visivamente può essere ottenuto applicando agli occhi due semisfere ricavate da una pallina da ping-pong, in presenza di una luce fortemente diffusa. Il corrispettivo acustico è l’ascolto di un rumore bianco, un rumore cioè che contenga tutte le frequenze dell’udibile. Come il colore bianco che, dopo gli esperimenti di Newton, contiene tutte le frequenze dello spettro del visibile, con uguale intensità. Ché a saperle dosare bene, e Christiaan Huygens fu tra i primi a dirlo, anche solo due colori - un giallo e un blu - possono dar luogo al bianco. Qui il problema può cambiar di segno ed essere affrontato dal lato di chi guarda, piuttosto che da quello - la luce - di ciò che permette la visione. Ed ecco che perché ci sia bianco, occorre che i nostri fotorecettori del colore - tre, sommariamente sensibili al rosso, verde e blu - ricevano appropriati stimoli da lunghezze d’onda di bande corrispondenti ai lori picchi di interesse. Questo nell’occhio, perché poi nella mente le certezze si frantumano e ciò che è misurabile fuori di noi, non lo è più così facilmente dentro, e appare bianco anche dove bianco non è. O non appare bianco anche se bianco è. Come il pezzo di carta o la neve di Wittgenstein. Il primo sicuramente tendente al grigio, la seconda al blu. Ma bianchi nei loro rispettivi contesti. Perché sì, la percezione, Edwin Land lo insegna, è una questione di rapporti, di differenze. Tra ciò che osservo e ciò che gli sta attorno.

Il bianco “più bianco del bianco” non è dunque quello della carta o della neve, né quello del bucato della pubblicità. E non è nemmeno quello dei sub-pixel del monitor su cui scrivo - rossi verdi blu alla massima intensità - tarati da un secolo di ricerche colorimetriche sui miei fotorecettori affinché io veda bianco.

Il bianco “più bianco del bianco” è il Ganzfeld. E il Ganzfeld è bianco, concettualmente. Nel suo negare il contesto. Anche se può essere di qualunque colore - come nei delicati e immersivi magenta e viola delle aperture di James Turrel, che già David Katz, negli anni trenta del Novecento, sperimentava per indagare i limiti della percezione - la condizione perché si abbia un Ganzfeld è che nessun punto del campo visivo si distingua dall’altro e non che il campo visivo sia bianco. Ed è proprio in questo non-distinguersi che si manifesta alla mente il bianco. E con esso la perdita. Una sensazione prima che una percezione.


"Sconfinato come deve apparire un uovo dall’interno; sconfinato perché senza giunzioni, continuo, vuoto, ininterrrotto."
David Batchelor, Scenari del bianco in Chromophobia


L’effetto del Ganzfeld sembra essere quello di una nebbia densa, vicina e impenetrabile, all’interno della quale si perde ogni riferimento spaziale. Non si percepiscono superfici, bordi, oggetti. Non si distinguono distanze, forme, dimensioni definite. Nulla di illuminato, nulla in ombra. Quand’anche colorato, le tinte scolorano, si indeboliscono perdendo chroma a favore di un grigio medio. Il Ganzfeld è così omogeneamente privo di stimoli che conduce ad una cecità. Porta al nero. E’ così concettualmente bianco da accecare la mente. E una mente accecata si perde nelle allucinazioni.

C’è bianco e bianco? No. La mucca dei Pink Floyd beve il Ganzfeld.