venerdì 26 ottobre 2012

Invera. O del quasi bianco

di Massimiliano Fabbri




Un'altra lancia una pietra, ma questa, mentre ancora vola,
è vinta dall'armonia della voce e della lira, e gli cade davanti ai piedi,
quasi a implorare perdono per quel suo forsennato ardire.
(…)
Poi con le mani grondanti di sangue, contro lui si volsero,
accalcandosi come uccelli che avvistano un rapace notturno disorientato dalla luce;
e il poeta pareva il cervo condannato a morire all'alba nell'arena,
preda dei cani che l'assediano sul campo.
Ovidio, Metamorfosi


E bianca. Una parola diversa per dire latte è il secondo episodio di Selvatico Spore, progetto che tiene insieme arte contemporanea e collezioni presenti sul territorio e che si costruisce e delinea proprio a partire da questo incontro fertile tra museo e opere di nuovi autori. Un dialogo, tra il conflitto e il discorso amoroso, che rende la mostra necessaria, urgente anche, perché reazione e riflessione intorno ai luoghi che la ospitano; un movimento e crescita che assomiglia molto all'andamento e sviluppo vegetale, con radici e ramificazioni e gemme.

E bianca è una mostra sulla perdita e gli abbandoni, su quello che resta, sugli oggetti che ci sopravviveranno, su vuoti scenari, avamposti artici e deserti. Sulle ossa e scheletri sbiancati, sulle conchiglie e sassolini, sulle molliche e briciole del pane lasciate alle spalle. Sulle immagini che affiorano dalla memoria e poi sbiadiscono e vanno via risucchiate dimenticate cancellate, o che proiettiamo sullo spazio ancora vergine del cervello, sullo sconfinato del foglio o della tavola. Altare che aspetta il sacrificio e su cui ricomporre i pezzetti sparsi del cadavere.

Sullo stupore abbagliante del guardare, e sul suo impedimento a tratti invincibile. Sul candore tattile immacolato dei materiali, ora luccicanti scintillanti come cristalli o stelle, ora opachi polverosi volatili come calce e gesso. E contatto di mano con purezza levigata irreale astratta di marmo, carne. Opalina liquidità dell'occhio. Montagne di sale e terra spaccata arsa. Le crepe di tutta la pittura. Condutture verticali dell'acqua. Vapore. Brina. Scie di aereo. Certe ragnatele leggerissime che si vedono all'aperto.

Il bianco è la condizione porosa di partenza, l'innamoramento e la cicatrice, la suggestione e la ferita, l'umore che chiama e governa. Origine e confine al tempo stesso. Perimetro della mappa e campo. Area vuota, magnetica elettrica. Oblio. Un mondo, che fuori di esso non esiste nulla.

É il desiderio che muove, la palpitazione, ciò che sta al centro e irradia, e a cui convergono immagini pensieri sequenze, da cui partono e si allontanano processioni di cose vedute come in sogno. Fantasie. Fantasmi. Periferia indistinta.

Difficile dire cosa venga prima nel farsi della mostra, quale il primo nucleo, agglomerato o meccanismo, se le opere di alcuni autori e la possibilità felice di pensarle insieme (perché intuiti punti di contatto, similitudini e contrasti efficaci tra esse) o invece una geografia familiare fatta di spazi espositivi, raccolte e narrazioni contenute intrappolate custodite nei musei che accoglieranno il percorso espositivo.

È il bianco che permette l'incontro, il filo che collega annoda congiunge. Morbida matassa. Un territorio da esplorare, qualcosa che inizia vago incerto nebuloso. Cavità dolorosa. Luogo attraversato da immagini isolate, lontane distanti alla deriva.

Forse la costruzione della mostra assomiglia un po' all'abitare una casa e prenderne possesso, dove le immagini e le cose trovano, lentamente, la loro collocazione e relazione, per spostamenti, incastri e aggiustamenti. Tentativo, forma molteplice potenziale frammentata che aspira ad un'unità ed equilibrio. E se la casa in questione comprende qui tutte le architetture e ambienti coinvolti, ogni singolo museo rappresenta allora una stanza di questo edificio che assomiglia e funziona come un organismo e corpo.

Velieri fermi immobili nel mare, una canoa spettrale che solca un lago o un fiume di notte, bianco lunare, cartilagini, perfezione e varietà di vertebre, apparizioni misteriose di animali bianchi eleganti potenti: cavalli e cervi e lupi e mucche enormi pazienti. Figure bianco vestite (umiltà di abiti e paramenti). L'impronta lasciata dai libri e dai quadri. Armature e cavalieri inesistenti. Conigli con orecchie trasparenti alla luce, capillari. Capre pecore galline. Gruppi di oche che guardano immobili nella stessa direzione e poi si muovono e schiamazzano insieme all'improvviso. Barbagianni con le ali spiegate. Ventri molli. Grasso e strutto e burro. Sapone. Piume sparse. Penna perfetta di uccello, spina di pesce e venatura vegetale. Funghi. Alghe e piante marine fluorescenti. Meduse. Puntini di tutti i tipi. Vermi e lombrichi. Bava argentata. Schiuma. Spuma di mare. Saliva.

Bianchi evanescenti e impalpabili come nebbia o nuvola, materni come latte uova farina zucchero. Riso. Il ritorno a casa e il panorama sconosciuto, l'essenza ultima interna delle cose e il velo e sudario che le occulta e bagna e copre parzialmente lasciandone intuire a tratti le forme. Si sta come sospesi tra un bianco che acceca mangia corrode e uno che è rivelazione e carezza.

Che il bianco porta sempre con sé un tentativo di orientamento, reazione al labirinto assoluto, quello dove non abbiamo più coordinate, sperduti in uno spazio infinito, inesistente. Galleggianti come astronauti. Luogo incerto illimitato immenso da cui partire e a cui ritornano le cose, condizione estrema, superficie pura. Polvere e luce. Ancora ad inseguire bagliori intermittenti tra le foglie e le dita della mano.

Il bianco è il margine, l'estensione magica paurosa della mente, il limite imposto a cui si chiede di raccontare il mondo tutto o quasi, attraverso una visione contraddittoria, perché affidata ad un colore che spesso si associa all'assenza, al grado zero o tabula rasa, eppure capace di abbracciare l'intero spettro delle emozioni e percezioni. Che tiene la morte così come la visione angelica virginale, l'astrazione estrema raggiunta per via di levare e la carta geografica o la pagina che aspetta la scrittura, il primo segno coordinata; il freddo glaciale siderale, ghiaccio neve, e il caldo accogliente del nido e bambagia e lenzuola pulite profumate fresche. La carta stropicciata dentro le scatole delle scarpe e l'orrore del polistirolo. Il giglio dell'annuncio, un lieve scostarsi di tende e brezza. Capelli lunghi di vecchia, sciolti per essere pettinati.

Uno sguardo bambino a guida, tra rapimenti scoperte e catalogazione ossessiva autistica.

La prima frattura è data dalla struttura della mostra che si articola in sezioni seguendo una divisione in atti che scandisce il ritmo del percorso espositivo, quasi a mettere sul piatto un fallimentare tentativo enciclopedico di descrivere il mondo, di abbracciarlo tutto, manco si trattasse di una collana scientifica per bambini, di quelle che non si fanno più, positiviste, divise per categorie e argomenti ben chiari e nitidi e separabili con esattezza; con temi e fuochi messi in ordine e in fila.

Questo uno dei primi ostacoli con cui l'impianto della mostra gioca e con cui fare i conti: la difficoltà e impossibilità forse, di affidare questo racconto al bianco, al più bruciante respingente accecante dei colori, ad un estremo invitante, inafferrabile e sfuggente. Una didattica smentita su cui si costruisce la narrazione.

Ora luce morbida che filtra svela disegna, il bianco è spesso associato a quiete leggerezza candore pulizia, ora visione che si affianca ed accompagna alla morte, ad una dimensione di abbandono e silenzio; nulla densissimo, a cui tendere e da cui ripartire.

Il colore perduto della statuaria classica, la luce che slava e sbiadisce – si pensi al suo effetto su fotografie e disegni, o sui panni stesi al sole – il bianco dei monti, le cave e le rocce, e poi strane erbe ritorte pallide cresciute al buio, sotto. Il bianco è la distanza; intoccabile attrazione. Aristocrazia della visione, religiosità di sguardo, spirituale rinuncia. Ascesi mistica.

E poi il bianco moderno e igienico, asettico osceno violento schiacciante che è degli ospedali e delle banche, dei negozi alla moda, degli obitori e delle gallerie d'arte, del bisogno dell'uomo di ordine, controllo e dominio sull'altro; così lontano dallo stupore, delicatezza e forza che invece il bianco in natura porta con sé.

Anch'esso, come il nero del resto, capace di contenere gli opposti e di farli toccare, di chiudere il cerchio e di compiere infine un giro completo dello spettro. Se A nera. Una lezione di tenebra riguardava promesse e cose a venire, possibilità fertili e futuro, E bianca è un allora un discorso intorno agli addii e abbandoni. Il bianco come della perdita. Una mancanza. Aridità struggente, distesa che ha a che fare con il passato, con qualcosa che non è più, come svuotato. O che non è ancora, e a cui crediamo.

E che rilancia la domanda rimasta aperta con la mostra nera, e ad essa si ricongiunge e la completa rappresentandone l'altra faccia o controcanto. La ricerca drammatica di una profondità primitiva, violenta purezza del guardare, verità di forma e immagine spinta sino alla sua negazione.

Una specie di ovattamento che ostacola e al contempo arricchisce la visione, un'addensante e tremante prospettiva aerea che avvolge. Uno schermo. Luce tagliente scintillante come lama che trafigge e fa il bianco vibrante, capace di azzerare e abbagliare, di far esplodere e disgregare i contorni. Smaterializzante e pulviscolare. Luce spolpante. Un'impronta di ciò che era, il contrario di un'ombra. Più simile ad un fossile probabilmente. Una mostra di cose in fin dei conti. E ricordi di visione. Immagini da un mondo perduto o mummificato.

Ma se restiamo fedeli alla divisione per sezioni e torniamo ad esse nel tentativo di mettere a fuoco e precisare l'architettura e disegno della mostra, noteremo come queste siano molto diverse tra loro, ciascuna caratterizzata e differente per un proprio specifico discorso, costruzione e temperatura. Eppure, a guardare bene, le tracce finiscono per sfumarsi l'una nell'altra e avere talvolta punti di contatto, quasi a sovrapporsi e confondersi nei confini; e al loro interno alcuni artisti che sembrano anticipare il tema successivo o che vanno a riallacciarsi e richiamare ciò che si è veduto in precedenza, quasi in un dejavù disorientante e circolare. A contribuire al flusso, forse a confondere le carte e slittare scivolare in un'incertezza di visione e pensiero che fanno il tempo esploso e lo spazio con vertigine concentrica. Abisso senza profondità.

Il percorso si snoda su sei comuni e rispettivi spazi espositivi e musei: da ciascuno di questi affiorano temi che caratterizzano la singola sezione e che finiscono col richiamare per affinità, empaticamente, il lavoro degli artisti. Musei che condensano e trattengono vocazioni e identità dei luoghi; raccolte e spazi espositivi che forniscono tracce e spunti da cui muove il progetto, che suggeriscono percorsi e traiettorie a tessere una trama che fa del museo stesso stimolo e ambito di produzione e ricerca. Uno scambio anche perché nuovi e altri punti di vista si depositano e intrecciano alle collezioni in un'ulteriore stratificazione di significati e immagini. Risonanze.

Un disegno ragnatela di corrispondenze. Talvolta vere e proprie intrusioni ed occupazioni temporanee nelle quali alcuni autori dialogano direttamente con le densità delle collezioni.

E se il museo è il bianco e il territorio ancora da scrivere, questa mostra plurale è allora il disegno che aspira ad essere mappa, tentativo di mettere le cose in relazione e stabilire rapporti, precari, di tracciare nuove linee che triangolano punti sparsi nello spazio devastante. Una costellazione, una collana di lucine e denti e perle, un catalogo infinito. Un museo dell'innocenza.

Sogni e memorie alle Cappuccine di Bagnacavallo, unica pinacoteca tra i musei coinvolti ad ospitare una galleria che dal medioevo arriva sino al novecento, è della pittura e a questo linguaggio è affidata l'apertura e il racconto di questa sezione e mostra, sequenza di immagini e finestre, processione di lampi e bagliori da un mondo perduto. Se la fotografia è sempre la scena di un delitto che blocca congela uccide, la pittura apre invece e scardina e fa il tempo esploso, ci raggiunge e chiama da un'altra dimensione, offre uno spazio altro che ha sempre a che fare con il ricordo mobile e instabile di una visione. Ferita, smagliatura del tessuto che ci permette di entrare accedere ad una specie di realtà parallela, che non si dà facilmente e va come ascoltata. All'improvviso, talvolta, risucchiante distanza. Che la pittura aspetta e il movimento è il nostro e nostra la proiezione sul quadro.

Nei dipinti, nebbie e foschie e brume, intrecci fitti inestricabili di rami, boschi e foreste con radure e animali e uccelli in scenari incantati incorrotti irragiungibili quasi di fiaba, volti slavati e corrosi come vecchie fotografie, ingiallite seccate fragili, doppi e simulacri e maschere e sindoni e veroniche, fragili impronte che nascono già incomplete strappate mancanti amputate, vuoti panorami schiaccianti e improbabili e inadatti a qualsiasi presenza umana o corpo, scena del delitto o teatro di un'apparizione appena fuggita o che sarà, astrazioni biologiche, magmi e affioramenti, intuizioni incerte mobili di figure a cui aggrapparsi e riconoscersi, come succede con le forme delle nuvole, cose portate dall'acqua e ristagni, bianchi di folgore e materia a squarciare. Fotografie di animali impagliati che ci chiamano interrogano accusano e romantiche montagne sognate innevate, appunti e ricordi della bellezza del mondo come visto attraverso una lente appannata. Disegno metamorfosi che genera e apre ad incubi, fantasticherie e fantasmi, mondi possibili dove il bianco della carta cerca di opporre resistenza alla copertura del nero della grafite e carbone. E l'immagine in movimento che passa attraverso un commovente bagno fatto di rarefazione e rallentamento del tempo percezione e memoria. Sguardo distillato come nel ricordo di un sogno.

A Fusignano al San Rocco e Suffragio Geometrie e altre meraviglie della natura e crescita. Uno sguardo nostalgia sulla natura affiora in molte delle opere di questa mostra: una rappresentazione del regno vegetale che diventa, nella ripetizione mantra, cura e preghiera, filtrata da un fare artigianale lento a farne un diario dei giorni. Le materie, le tecniche e i modi di fare acquistano allora un significato particolare, domestico, dettano ritmo e cadenza - disegno cucito ceramica mosaico - quasi a intonare una litania perpetua, un canto delle ore oscillante tra due poli, uno cristallizzato in geometrie, dove il dato naturale sembra venire addomesticato e reso docile, l'altro fatto di andamenti più curvilinei e sensuali e procedenti per accumuli e sviluppi imprevedibili caotici. Onde e sciami e ventosità.

Le targhe devozionali e l'ex ospedale ottocentesco che le ospita ci parlano di un luogo di guarigione, e allora ecco la natura riparatrice, la terapia, prima madre a cui tornare, che accoglie e mangia, crudele e sotto attacco. Un timore. Da proteggere e difendere, con riti anche, e il cucire e un disegno decorativo ossessivo sono strategie e sortilegi per capovolgere il mondo, o salvarlo, per comprendere l'ordine segreto e la regola e numero che lo governa. Per raggiungere un equilibrio e quiete. Respiro che contempla morte e rinascita, tra ordine, sviluppo matematico e improvvise accelerazioni tumorali barocche. Griglie, strutture e sinuosità vegetali.

Una natura che pare a tratti impossibile, compromessa anche solo dal tentativo amoroso di tradurla, fino a farla diventare sterile artificiale decorativa attraverso la disciplina e astrazione della geometria; e un lieve accenno di disordine o errore a riprendersi gli spazi e minare il disegno, un'attesa di rivoluzione e sommovimento che scorre, sottopelle, dentro alle vene e nervature. Palpabile percezione di un rovesciamento prossimo, silenzioso incombente, stasi prima della crescita improvvisa tumultuosa incontrollabile caotica, con tuono e fragore di terremoto. A fianco, un fare bambino, a tratti ingenuo candido giocoso, con moltiplicazioni e morbidezze e sensi aperti ricettivi felici. E pesantezza di materia che viene alleviata e alleggerita come respiro. Verrebbe da dire anima...

Ad Alfonsine Innesti, in quello che non è solo un museo di guerra ma una raccolta di storie e genti che racconta del fronte sul fiume Senio e della distruzione avvenuta ai danni dei paesi affacciati; questa mostra parte da una piccola sezione che conserva un gruppo di oggetti lasciati indietro e abbandonati dopo il passaggio degli eserciti. Oggetti militari che gli abitanti hanno poi riutilizzato mettendo in pratica un atteggiamento in bilico tra la decontestualizzazione del ready-made e lo sguardo iconoclasta che cambia di significato alle cose, senza negarle del tutto, infischiandosene della loro funzione, per necessità certo, per felici intuizioni dettate dal bisogno e povertà, eppure resta sottotraccia qualcosa in più, un destino beffardo delle cose, un'amara ironia di fondo. E allora un elmetto nazista diventa un badile per raccogliere letame, una cassetta metallica contenente armi si trasforma in stufa, una griglia metallica per decolli su terreni fangosi dà il là ad una serie di cancelli visibili tuttora in Romagna.

Una poetica del riciclo e riutilizzo che non è distante dalla ricerca di molti artisti che operano veri e propri innesti a partire da un alfabeto frammentato di oggetti. Rifare mondi a partire da cose già esistenti, rinominarle con nuovi assemblaggi e relazioni inconsuete a risignificarle, spostarle e riportarle in vita. Talvolta congelate in una frigida ibernazione lattiginosa.

Oggetti contro natura forse; nature e parti di essa che diventano cose e oggetti e viceversa; armature e protesi, rifugi di fortuna precari, nuove antiche architetture abbandonate silenziose, sistemi organici morti. Diorami in miniatura dove ricreare il mondo e vita. Esperimenti di laboratorio. Un fiume che diventa segno e linea per nuove metafore del combattimento. Collezioni ipertrofiche, messaggi e riassunti del mondo da inviare nello spazio, e feticci.

Dall'attitudine vorace e bulimica di Varoli che trova raccoglie conserva reperti e chincaglierie (ancora una volta il collezionismo) muove la mostra di Cotignola: Archeologie. Tra il biancore lapideo glaciale del marmo e pietra, e quello osseo animale minerale cartilagineo di un bestiario bambino: fossili, impronte, corpi velati, superfici scheggiate sbrecciate, paesaggi intrappolati e misteriose città affioranti, fotografie da albori corrose e svanenti, e una scultura che si fa mappa, sito visto dall'alto, soglia e discorso sul tempo. Mondo scoperchiato da uno scavo, con luce che inonda rivela. Cera. Tessuti candidi, piacevoli al tatto, fatti con cotone buono. Altre ruvidità e imperfezioni di margini smunti frastagliati a contrastare levigatezze splendenti.

La mostra abbraccia e si estende a tutto il museo in un vero e proprio cortocircuito disseminato tra collezioni e opere contemporanee: vesciche preziose lucenti come alabastro e ambra, foglie e fotosintesi che raccolgono, impigliano e trattengono memorie di sguardi e affetti, dettagli e parti magiche simboliche di corpi, relitti e legni ammuffiti scrostati di barche arenate distrutte, ruggini, enigmatici oggetti senza più funzione condannati ormai al piedistallo o teca, quasi animali e scarti organici trasformati da follia visionaria di scienziato pazzo, costellazioni, sistemi e galassie calcaree, tragici corpi muti tra sonno e caduta, impronte dell'aria e calchi che trattengono le voci e i respiri, i pensieri e i battiti; divinità perdute disperse, eroiche visioni di statue e pezzi sparsi e immagini come raccolte salvate da un campo di battaglia immenso e tragico e senza tempo e fine, con la storia tutta dentro, e gli uomini e i fiori e gli amori e le sconfitte e una bellezza ancora possibile, lacerata in frantumi. Sguardo che si dimentica e abbandona, divorante divorato dalla storia dell'arte e dalla gamma insostenibile meravigliosa dei sentimenti dell'uomo, sepolto dal suo atlante sterminato e geologico di cose vedute.

A Lugo Esplorazioni e avventure. Anche se il museo non viene coinvolto direttamente, la figura eroica dell'aviatore Francesco Baracca aleggia, indica e traccia un possibile percorso a cui si affianca un altro fantasma di lughese illustre, quello di Agostino Codazzi cartografo e geografo e rivoluzionario. S'impone allora uno sguardo a volo d'uccello, un occhio belva che vede fruga ruba, una prospettiva aerea sulle cose; e poi la dimensione della scoperta e avventura, tra l'infimo e banale quotidiano e l'esotico improbabile sorprendente.

Indagine condotta principalmente dalla fotografia, linguaggio che, nonostante tutto, è ancora il mezzo più credibile a cui affidarsi per trafiggere e inchiodare la realtà, per rovesciarla e fare in modo di tornare a vederla. Per prolungare l'inganno e il racconto di mondi altri. Contro l'abitudine di un vedere morto che sa già tutto. E poi il disegno, sguardo immaginifico, tentativo assoluto originario di orientamento. Prima mappa, anche nel semplice segno nudo e scarabocchio analfabeta, anch'essi misura dello spazio e profondità e grammatica.

La trasparenza lucida instabile volatile dell'acetato, angoli affollati della città dove la scena e il tempo si fermano per un istante perfetto come a svelare in un capogiro specchiante e labirintico le intersezioni e gli equilibri tra le cose e le vite e i movimenti e le traiettorie del caso, infimi angoli abbandonati con erbe che crescono tra le crepe e distrazioni, gabbie reti griglie ringhiere, pali e fili e panni stesi ad asciugare e cavi dell'elettricità e telefono, saracinesche spigoli muri scrostati, stanze e camere spoglie, città souvenir portate altrove e liberate, quasi una surrealtà. Carte e libri, tavolozze di ghiaccio, neve e vapore, paesaggi silenziosi arenati, onde e derive. Diari di bordo e mappe cancellate coperte in nome della libertà o del fare da capo, ancora, bisognoso di distruggere.

Infine Massa Lombarda, Regni bambini, il tutto e niente dell'infanzia e la collezione Venturini, sorprendente raccolta fuori tempo massimo di naturalia e mirabilia; un accumulo simile a quello del fanciullo che riempie le sue tasche delle cose che trova e incontra nelle sue scorribande, un catalogo di possibilità e giochi, un abecedario del mondo.

E poi la pinacoteca a chiudere idealmente il cerchio con l'inizio di E bianca rappresentato da Bagnacavallo. Oltre alle raccolte questa sezione coinvolge anche il Centro giovani con una narrazione affidata a molteplici linguaggi che ci restituiscono un universo lieve e incantato, capace di affondi e inquietudini oscure: volti tanti a guardarci e sorprenderci, figli a popolare il mondo e compagni immaginari, trofei tra il delicato e grottesco, paesaggi e giardini perduti di un eden lontano, quasi magia, accumuli e intrichi e grovigli di legni ritorti e rami e ossa e morbide palle di lana e tessuto. Carta stropicciata. Fiabe tragiche. Ceramiche e porcellane raffinate perfette preziose, eleganza ingannevole, trabocchetto che nasconde e apre voragini di senso; un'ironia implacabile che si diverte a capovolgere devastare il mondo, per gioco o per noia. Per spostare limiti e confini. Per tornare finalmente al bianco che forse fa le cose nuove, o morte del tutto.