venerdì 26 ottobre 2012

Attrazione glaciale *


di Stefano Mazzotti **



Chi potrebbe descrivere la bellezza d’una notte polare quando la luna splende in tutta la sua pienezza? Vi è qualche cosa che incanta guardando da terra quell’immenso campo bianco scintillante sotto i raggi lunari, il quale non è interrotto che dal nero della “Vega” che erge al cielo le sue braccia come un gigantesco fantasma.
Giacomo Bove


L’altrove, l’oltremare, andare lontano, esplorare l’ignoto; da sempre è una delle esigenze primarie della specie umana. Le bianche sterminate pianure della Siberia, le innevate catene montuose dell’Himalaya e del Caucaso, l’Alaska e persino i massicci montuosi inesplorati all’interno del continente africano eserciteranno un irresistibile fascino sulla cultura europea, muovendo un intenso flusso di ricercatori che arricchiranno le conoscenze scientifiche su queste aree del pianeta ancora in gran parte incomplete. Le spedizioni, anche se promosse ufficialmente da organizzazioni governative o da società scientifiche, non perderanno il loro carattere eroico e avventuroso, spesso toccheranno mete al limite delle possibilità umane, arrivando anche a chiedere in cambio la vita di questi nuovi protagonisti dell’esplorazione.

La storia delle esplorazioni polari è forse il capitolo più ricco di queste avventure; i diari e le relazioni delle spedizioni organizzate da intrepidi esploratori irresistibilmente attratti fin dal xvi secolo da quelle infinite distese di ghiaccio sono vere e proprie icone della letteratura odeporica. Questi uomini si sono spinti all’estremo nord, e sono giunti alla “fine del mondo”, con lo scopo primario di trovare una via di passaggio dall’Atlantico al Pacifico. Alcuni di loro l’hanno cercata nell’America settentrionale, provando a tracciare il passaggio a nord-ovest; altri sono penetrati fra i ghiacci lungo le coste settentrionali del continente eurasiatico per scoprire il passaggio a nord-est. Queste spedizioni, mosse inizialmente da scopi commerciali, dal xviii secolo assumono invece una connotazione sempre più scientifica.




Passaggio a nord-est

Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento Bove è reduce dalla crociera in oriente (Malesia, Borneo, Filippine, Giappone e Cina) sulla pirocorvetta Governolo, che dal 1872 lo ha impegnato in una missione scientifica. Durante questo viaggio Bove, venuto a conoscenza della spedizione polare svedese pianificata dall’esploratore e scienziato Nordenskiöld, non perde l’occasione e chiede di partecipare. La Vega, ex baleniera riadattata per scopi scientifici, salpa dal porto svedese di Karlskrona il 22 giugno 1878, alla ricerca del mitico passaggio a nord-est.

Fin dalle prime tappe, lungo la frastagliata costa nei pressi di Capo Nord, Bove comincia a percepire una sensazione di sgomento di fronte alla vastità dell’Artico: «Il silenzio che mi circondava mi faceva paura, ed io guardavo sbigottito l’immenso e variato panorama che si spiegava sotto ai miei occhi. A dritta, sin dove lo sguardo poteva giungere, erano bagliori di nevi, scintillii e pallide azzurrità di ghiacciai, creste squallide e nude, splendide guglie: a sinistra l’immenso oceano chiuso da un orizzonte nero e minaccioso».

Ben presto però i timori di Giacomo si dissolvono; il 25 luglio la Vega solca le acque del Mar glaciale artico e a bordo fervono le attività scientifiche: «Si son cominciate le osservazioni idrografiche, alle quali soprintendo io; ed esse consistono nello scandagliare esattamente il fondo, mediante uno scandaglio comune o Brooke; dragare per avere saggi di fondo e campioni della fauna di questi mari; gettare larghe reti alla superficie del mare per raccogliere alghe ed altre sostanze vegetali in sospensione; misurare temperatura, peso specifico, quantità di sale contenuto nell’acqua a diverse profondità ecc.».

Superata la grande isola artica della Nuova Zemlia, gli esploratori della Vega fanno il loro primo incontro con il popolo dei samoiedi; poi, proseguendo nella rotta verso est, la nave imbocca il mar di Kara, che promette l’incontro con la pericolosa banchisa. Nel suo diario di bordo Bove racconta di quei momenti d’apprensione: «Ognuno di noi spiava quindi attentamente le acque che si spiegavano dinanzi e l’equipaggio aggrappato sulle sartie, disteso sui pennoni e abbarbicato sulle alte cime degli alberi interrogava ansiosamente l’orizzonte». All’improvviso, «niuno pose il dubbio che stavamo correndo tra il ghiaccio, ed in effetti alle 11 pm. un sordo brontolio come quello dell’onda che si frange sopra di una spiaggia ci annunciò che eravamo giunti sul margine di esso. Questo rumore che sentito in altri mari ed in altre circostanze mi avrebbe agghiacciato il sangue nelle vene, là trovava invece le vie del mio cuore come dolce melodia».

La navigazione fra i ghiacci della nave, la cui prua è adeguatamente rinforzata da lastre di metallo che proteggono la chiglia dagli urti delle masse di ghiaccio, è abbastanza agevole, cosa che viene accolta da Bove come un buon auspicio: «Il ghiaccio però non era così serrato da offrire un serio ostacolo ad una nave qualsiasi; larghi canali d’acqua libera separavano un blocco dall’altro, cosicchè la “Vega” potè senza difficoltà spingersi in mezzo ad esso e senza grandi deviazioni proseguire nella sua rotta […]. Di per ogni dove ci giungevano i gemiti e gli urli delle masse cristalline che si fendevano: magnifiche cascatelle scendevano lungo i fianchi di alti icebergs, i quali dal sole e dalle onde si spaccavano mandando ruggiti terribili».

Superata la foce del grande fiume siberiano Lena, la navigazione comincia a farsi difficoltosa a causa della presenza di un pack sempre più compatto; il 28 settembre 1878 la spedizione è costretta a fermarsi nella terra dei ciukci, per passare l’inverno artico nei pressi di Pitlekai. Durante il lungo periodo di sosta Bove studia a fondo il popolo siberiano, e nel suo diario riporta dettagliate osservazioni sulle loro abitudini di vita, sugli attrezzi e sulle capanne, illustrando con precisi disegni anche le forme e le architetture delle loro costruzioni. La vita durante il lungo inverno artico non è certamente delle più gradevoli, ma gli esploratori non si fanno prendere dallo scoramento, come testimoniano le parole di Bove:

«La vita continua monotona ed il freddo aumenta; abbiamo già raggiunto i -37°, ma non sarebbe nulla se non tirasse continuamente questo benedetto vento. […] La salute dello stato maggiore e dell’equipaggio non lascia a desiderare e ciò devesi principalmente alle occupazioni in cui l’equipaggio stesso è tenuto. Per l’acqua ci serviamo del ghiaccio preso nelle vicinanze della nave: è di prima qualità, perciò l’acqua è buonissima. Si sono uccisi i due maiali che avevamo a bordo, essi serviranno ad aumentare l’allegria del giorno di Natale. Intanto si lavora alacremente per preparare la festa di Natale: albero, regali, musica, ecc. Le mie raccolte etnografiche vanno via via aumentando».

La notte di Natale del 1878 spira un forte vento dall’est, la temperatura sale repentinamente verso lo zero e il cielo terso si illumina di una stupefacente aurora boreale.

In un giorno di marzo, durante un’escursione fra i ghiacci lungo la costa, viene avvistato un gufo delle nevi dalla candido piumaggio che sorvola il territorio a caccia di lemming: forse una prima avvisaglia della fine del lungo inverno boreale? No, perché gli scienziati dovranno attendere ancora diversi mesi per poter liberare la Vega dalla morsa dei ghiacci e riprendere il mare. Verso la fine di aprile le temperature cominciano a salire, e il ghiaccio inizia un lento disgelo; il 17 maggio sembra succedere «Alle 6 pm. del pomeriggio la nave si liberò dal ghiaccio e si rialzò subitamente: a prua si alzò di un piede ed a poppa di qualche centimetro». Ma è un falso allarme; ben presto le temperature precipitano ancora, e ricomincia a nevicare. Si dovrà attendere il 18 luglio 1879 per muovere finalmente la Vega verso il suo destino; il 20 del mese la spedizione attraversa lo stretto di Bering, e con le bandiere di gala issate saluta il passaggio con cinque colpi di cannone. Il viaggio prosegue verso l’Alaska, fa sosta nell’isola di San Lorenzo e poi, il 2 settembre, getta l’ancora a Yokohama, dove l’equipaggio riceve onori e festeggiamenti. Da lì, attraverso l’Oceano Indiano e il canale di Suez, il 14 febbraio 1880 arriva a Napoli.




Il principe esploratore

Nel luglio del 1897 Luigi di Savoia, Filippo De Filippi e un gruppo di fidate guide alpine valdostane davano inizio alla scalata al monte Sant’Elia, massiccio montuoso situato lungo la catena costiera occidentale ai confini fra l’Alaska e il Canada. Il resoconto di questa impresa è narrato nella relazione pubblicata nel 1900 con il titolo La spedizione di S.A.R. il Principe Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi al Monte Sant’Elia (Alaska). La squadra è composta anche da Cagni, da Sella e dal suo assistente fotografo Erminio Botta, dall’avvocato Francesco Gonella, presidente della sezione di Torino del Club alpino italiano, e dalle guide valdostane.

La dura arrampicata di questo massiccio nord americano ha successo: raggiungono per la prima volta nella storia dell’alpinismo la vetta a 5493 metri. Ecco come De Filippi ricorda quel glorioso momento: «Vedemmo il Petigax e il Maquignaz, che camminavano alla testa, tirarsi da parte, cedendo il passo al principe. Il culmine estremo era dinanzi a loro, a pochi passi. Sua Altezza Reale si avanza fra essi e mette il piede, primo sulla vetta del Sant’Elia, mentre tutti noi accorriamo ansanti, trafelati, per unirci al suo grido di trionfo: Urrà per l’Italia e per i Savoia!». Al di la della retorica patriottica e dei record sportivi l’impresa porta anche notevoli risultati scientifici. Oltre ai contributi geografici De Filippi raccoglie infatti una vasta messe di dati geofisici, meteorologici, geologici e naturalistici, e riporta con sé in Italia una notevole raccolta di piante e animali che saranno oggetto di studio da parte di vari specialisti dell’epoca.

Nel 1899 il duca degli Abruzzi organizzerà la spedizione polare con la nave Stella Polare, una ex baleniera norvegese acquistata direttamente dal principe e riadattata per la spedizione. La spedizione polare di Luigi di Savoia avrà risonanza mondiale, perché raggiunge una latitudine nord (86° 34’) mai toccata fino ad allora. Ma la traversata della banchisa è durissima: il principe subisce il congelamento di una mano e deve lasciare il comando della spedizione a Cagni, che grazie ai 121 cani da slitta acquistati in Siberia e imbarcati sulla nave riesce a portare a termine la spedizione.

Nel 1909 il principe Luigi di Savoia lancia la sua personale sfida al massiccio del Karakorum e alla proibitiva vetta del K2 per tentare di stabilire il nuovo primato d’altitudine raggiunto da un essere umano. Le immagini raccolte da Vittorio Sella con la sua ingombrante e pesante fotocamera Kodak Folding e la storia di questa scalata scritta da De Filippi, pubblicata nel 1912 con il titolo S.A.R. il Principe Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi. La spedizione in Karakorum e nell’Himalaya Occidentale, 1909, sono ancora oggi l’emozionante testimonianza di un’impresa d’altri tempi.

Il gruppo di alpinisti raggiungerà quota 7498 metri, al Bride Peak (Chogolisa) nel Karakorum, ma non riuscirà a scalare il K2, la seconda cima più alta del mondo, a quei tempi ancora inviolata. Questa montagna è per De Filippi, medico e fisiologo, una specie di laboratorio naturale per mettere alla prova la resistenza dell’organismo umano alle condizioni estreme dell’altitudine. Lo scoramento a causa del fallito tentativo di raggiungere la cima è evidente: «Non si può sperare di portare a termine una salita così lunga e terribile, quando già muovendo i primi passi si incontrano difficoltà di questa portata […]. È probabile che nessuno salirà mai sul K2 […] Per la prima volta mi sono trovato davanti a una montagna della quale nessuna parete è accessibile […] Impossibile!»; ed ancora ribadisce: «Il fatto è che questi sono monti ai quali non si può guardare senza turbamento, sfingi colossali che sembrano racchiudere misteri paurosi; e dinanzi a esse riproviamo forse la consapevolezza della nostra debolezza nell’impari duello che deve aver turbato l’animo dei primi salitori delle Alpi».

Di quella spedizione rimangono i vari toponimi attribuiti dai nostri alpinisti alle vette e ai ghiacciai attraversati, come il ghiacciaio De Filippi, che ancora oggi compare sulle carte topografiche della regione del K2.




Le montagne delle luna

Per secoli i bagliori lontani che si potevano ammirare dalle foreste pluviali e dalle savane nel cuore dell’Africa sembravano ai viaggiatori occidentali enigmatiche visioni. Fu lo studioso greco Claudio Tolomeo, padre della geografia, a tracciare per primo nel ii secolo nelle sue mappe le Lunae Montes, le montagne della luna. Secondo la sua interpretazione le nevi di questo massiccio montuoso, nel cuore del continente nero, con le loro acque di scioglimento avrebbero alimentato i laghi sorgentiferi del Nilo.

Passarono molti secoli prima che si potesse trovare una risposta ai diversi quesiti dell’orografia e dell’idrografia del grande fiume africano. E occorrerà attendere la prima metà dell’Ottocento, con le grandi spedizioni alla scoperta delle sorgenti del Nilo, per avere notizie delle Montagne della Luna. Il primo a segnalare la presenza di questa catena montuosa è l’italiano Romolo Gessi, che nel 1876 è impegnato nell’esplorazione delle coste del lago Alberto. Quando la avvista in lontananza ne fornisce una suggestiva descrizione: «Come una strana visione di monti nevosi, quasi galleggianti ed evanescenti nel cielo». Sono le montagne che gli indigeni chiamano Ruwenzururu, “luogo della neve”. Le stesse montagne che nel 1888 Henry Stanley, pur senza raggiungere le cime, chiamerà Ruwenzori.

«Il vento soffiava forte da est. Tutto attorno era il bagliore bianco della nebbia, impenetrabile allo sguardo. Ognuno aveva fisso nell’animo il pensiero della punta più alta, distante poche centinaia di metri, ma invisibile. E aspettarono, tendendo gli occhi ostinatamente a nord. In un’ora e mezzo poterono solo distinguere, per pochi istanti, tra le nebbie assottigliate, gli incerti contorni della vetta maggiore». Così De Filippi descrive il momento cruciale di una delle più audaci imprese compiute dagli esploratori italiani su una delle montagne più insidiose e affascinanti dell’Africa. Una catena montuosa avvolta dalle nebbie, dal clima variabile e piovoso, composta da decine di cime superiori ai 4000 metri d’altitudine, fra le quali svetta la Punta Margherita con i suoi 5125 metri. La spedizione parte il 16 aprile 1906 da Napoli, arriva a Mombasa il 3 maggio e raggiunge il lago Vittoria; da qui comincia il percorso a piedi verso la base delle montagne. La carovana, organizzata nei minimi dettagli da Luigi di Savoia, è imponente.

Man mano che la pista si inerpica sulle pendici la temperatura si abbassa fin quasi allo zero, e il paesaggio per gli alpinisti si fa più familiare. Raggiunti i 4000, il duca decide di fare campo base. A partire da qui verranno fatte tutte le escursioni che risaliranno le più importati vette della catena ammantate dai ghiacciai del Ruwenzori. Tra queste il monte Baker di 4873 metri e i picchi scoperti e battezzati dal duca degli Abruzzi: Wollaston (4659 metri), Moore (4654 metri), Semper (4829 metri) ed Edoardo (4873 metri), fino al massiccio del monte Stanley, dove Luigi Amedeo raggiunge i 5125 metri della punta più alta del Ruwenzori, dedicata quindi alla regina Margherita. Nel complesso la spedizione rileva la bellezza di 18 cime, fissandone l’esatta posizione topografica e l’altitudine. Dopo questa spedizione sulle mappe della catena montuosa rimarranno i toponimi a ricordo dell’impresa degli italiani: punta Cagni, punta Sella, punta Vittorio Emanuele, punta Bottego, punta Jolanda, monte Gessi.







* testo tratto da: Stefano Mazzotti, 2011 “Esploratori perduti. Storie dimenticate di naturalisti italiani di fine Ottocento” Codice Edizioni, Torino


** Direttore del Museo civico di Storia Naturale di Ferrara