venerdì 26 ottobre 2012

Sostenere il bianco

di Roberta Bertozzi


All’origine di qualsiasi atto creativo sta sempre il bianco, intendendo con questa parola quello spazio vuoto, immacolato, vergine che precede ogni poiesis, ogni produzione d’opera. Il bianco della pagina, della tela, di uno spartito, la cornice deserta di un palcoscenico; così come bianca, cioè ermetica, priva di rilievi, può essere considerata la realtà stessa prima che l’occhio di un fotografo o di un regista vi incida il suo taglio: in tutti questi casi si tratta di supporti, luoghi, contesti “non scritti”, cui non è stata applicata alcuna selezione, non marcati da alcun perimetro o segno – del tutto incondizionati. Di riflesso, può essere considerato bianco anche quell’intervallo, quella fissità inesplicabile, quella sospensione vagamente ipnotica che si impossessa di chi è in cerca di un’idea, o meglio, di chi è vittima del brancicare del pensiero ancora al suo stato nascente, ancora in attesa di espressione. Mancamento di fronte al continuum indifferenziato della realtà, di fronte al tempo, alle parole, a se stessi: un unico, lineare testo bianco.

L’artista fa costante esperienza di questo limite, oscilla ripetutamente entro questa zona incerta che sembra spronarlo a un confronto – che chiede di essere attraversata, occupata, agita. L’immagine del blocco dello scrittore davanti alla pagina, di un pittore davanti alla sua tela, suggerisce tale implicita sfida e insieme la presa di coscienza della totale arbitrarietà del proprio gesto, dell’abisso in cui si muove l’intenzione. Lo spazio bianco ci inchioda alla perpetua minaccia dell’afasia, all’instabilità costitutiva del nostro fare: ci restituisce a quel punto di partenza in cui stazioniamo indifesi, impreparati, in cui neanche quanto abbiamo compiuto in passato è in grado di attestare la nostra esistenza. Il senso di impuissance, l’aridità o stallo che l’artista conosce è in esclusiva relazione con questo punto: non si tratta di una semplice mancanza d’opera, né di uno stato psicologico o esistenziale che intralcia l’azione del soggetto; è altresì l’esperienza di una situazione “drammatica”, di un teatro di forze contrastanti e a un tempo complementari, di un’arena in cui l’ispirazione e la mancanza di ispirazione si confondono, la potenza o lo stare in potenza, la libertà di creare o di non creare affatto si equivalgono.

Esiste in ambito letterario una figura che è stata più volte utilizzata come paradigma di tale dimensione: mi riferisco a Bartleby, protagonista dell’omonimo racconto di Herman Melville. Assunto come scrivano presso uno studio legale, egli a un tratto desiste dallo scrivere e in seguito dallo svolgere qualsiasi altra mansione, opponendo alle richieste del suo capo una replica tanto enigmatica quanto sconcertante, “I would prefer not to”, “Preferirei di no”. A poco a poco la formula scardina qualsiasi possibilità per i colleghi e l’avvocato di rapportarsi a lui e barrica il nostro eroe in un’aura di pura incomprensibilità, infondendo in quelli che lo circondano una sorta di timore reverenziale. Ecco l’interpretazione che Giorgio Agamben dà di questa sua eccentrica condotta: “L’atto perfetto di scrittura non proviene da una potenza di scrivere, ma da una impotenza che si rivolge a se stessa e, in questo modo, avviene a sé come un atto puro (che Aristotele chiama intelletto agente, o poetico). […] Bartleby, cioè uno scrivano che non cessa semplicemente di scrivere, ma “preferisce di no”, è la figura estrema di quest’angelo, che non scrive nient’altro che la sua potenza di scrivere”. Bartleby sa di poter scrivere ma preferisce non farlo: lo spazio bianco che si stende di fronte a noi è precisamente la prospettiva in cui si consuma tale aporia, sempre nella forma di un’ambivalenza: se potere o non potere, fare o non fare – se, in ultima istanza, tracciare o non lasciare traccia.

Là dove si dà assenza d’opera il creatore impiega il suo tempo prevalentemente nello sforzo di stabilire un contatto con questo nulla, di insediarvisi, provocandolo e facendolo reagire. Egli è consapevole che se fosse altrimenti, se non incontrasse resistenza alcuna, la necessità del suo atto verrebbe meno, si spegnerebbe la ragione stessa del suo essere. In fondo, questo suo ostinarsi contro lo spazio bianco, questa sua esigenza di scongiurarlo, fanno intendere una consapevolezza ben più tragica, e cioè che esso nega la sua identità: senza opera d’arte, di scrittura, di parola, a essere messa in discussione è la sua stessa persona. Come suscitare quindi questo agone? In che modo far reagire il vuoto, la più assoluta e terrificante disponibilità? Come far risaltare una differenza in quella superficie uniforme e anonima che gli sta davanti? Costringendosi, diventando il prigioniero volontario, o il suppliziato, della legge fattiva che egli si è scelto.

Paul Valéry aveva già intuito come, nel momento della creazione, l’artista condizioni se stesso attraverso una serie incalcolabile di pressioni, incaricandosi, contemporaneamente, di essere fonte, costruttore e coercitore. Il suo sforzo è insomma triplice: c’è una prima fase che è puro impulso, slancio, caotica irruenza, cui ne segue un’altra, la quale dirige, modifica, architetta, fa convergere in un’unica trama il fascio di significati che irradia in ogni direzione; infine, la terza è diretta ad assicurare una effettiva durata all’intera manovra. A proposito di quest’ultimo, fondamentale passaggio, scrive Valéry: “Insomma, bisogna sottomettersi a una certa costrizione; essere in grado di sopportarla; persistere in un atteggiamento forzato, per dare agli elementi di pensiero, che sono a confronto o in carica, la libertà di obbedire alle loro affinità, il tempo di unirsi e costruire, di imporsi alla coscienza; o di imporle una qualche certezza”.

Sostenere il bianco, il vuoto, l’assenza di significazione, di necessità, di oggetto; reggere la finzione garantita solo dalla nostra durata. La formula della creazione è del tutto simile a uno sforzo muscolare statico, a una compressione prolungata, a una prova di tenacia. Contro lo spazio illimitato del supporto, la sua illimitata accessibilità, il suo non presentare argini di sorta, l’artista non può che attuare un détournement della propria postura, estrarre da se stesso i vincoli, le interdizioni, i rituali, tutto ciò che lo aiuti a preservare il gesto, che possa favorire l’emersione di un legame, di una fatalità in ciò che va facendo. La sua esistenza è irrimediabilmente sotto condizione, ogni sua impresa configurandosi sempre come opus incertum, come qualcosa di verificabile soltanto nel corso dell’esecuzione. Mai prima, come ho tentato di dimostrare, e nemmeno dopo. Perché non appena l’opera è terminata, non appena essa è entrata nello stato irreversibile del nero-su-bianco, si dà improvvisamente uno squilibrio: assolto il suo compito l’artista è costretto a sperimentare l’identica estraneità iniziale, lo stesso distacco avvertito di fronte alla pagina vuota. Egli non dispone più dell’opera, ormai del tutto avulsa anche dalla propria matrice storica e dinamica, ed essa non domanda lui più alcun intervento: tutto ciò che è stato compiuto presto dissolve, come per una mano di bianco.