mercoledì 7 novembre 2012

Film Bianco. Immersioni oniriche ed esperienza cinematografica

di Marco Bertozzi


In una mostra sull’abbagliante stupore del guardare, il bianco al cinema mi ricorda l’esperienza estetica del risveglio. Del duplice risveglio. Da un lato quello della visione, del film che sta finendo e dei sottotitoli che scorrono sulla luce accesa in sala, sempre inopportuna, sempre troppo presto. Quel piacere sonnolento rivendicato da Roland Barhes in Uscendo dal cinema, nella riacquisizione del corpo dopo lo stato ipnotico della visione. Un erotismo moderno, che ci accompagna nel buio della notte metropolitana, lasciandoci soli, a riflettere su quelle ombre baluginanti.

Dall’altro il risveglio del mattino, dopo l’esperienza onirica, in cui la luce lattiginosa del giorno entra nella stanza e ci inonda col suo principio di realtà. La figura è quella della dissolvenza incrociata, quell’obbligo a riconoscere le rigide geometrie del mondo mentre si dirada la promessa di un vento che sparigli ancora i nostri sguardi. Nella sudorazione di un senso languido, non ancora espresso, subito bloccato dalla presunta chiarezza della luce diurna (luce che, paradossalmente, ammanta di opaco).

In una esposizione sulla perdita e gli abbandoni - e sulle immagini che affiorano dalla memoria – questi diversi momenti del risveglio hanno un luogo d’incontro nell’addormentarsi al cinema. Non so bene come possa succedere: motivi gastrici, stanchezza serale - forse noie abissali? - fattostà che mi accade sempre più spesso. Di solito, al risveglio, oltre a una piccola vergogna, ho l’impressione di avere assistito a un film profondo ed elegante. Sovrappongo le due esperienze – quella del sogno e quella cinematografica – in un terzo tempo onirico, in cui resti psichici e immagini perdute montano visioni stralunate. Il farsi nuvola di questa esperienza mette alla prova il mio discernimento e scandisce un ritmo pausato, quasi ozioso, nella costruzione di un senso rivisitato.

Il fatto che l’opera – come la nuvola – cambi continuamente sotto/dentro le mie palpebre stanche, evoca alcune considerazione di François Jullien, in La grande image n’a pas de forme. Siamo fra turbolenze visive suscettibili di accogliere, proprio perché instabili, qualsiasi forma. Jullien parla della pittura cinese, della logica respiratoria di forme che si sfaldano nei loro vapori, in perenne modificazione atmosferica. Caratteristiche evidenziate sin dal supporto del rotolo, in carta o seta, stropicciato per ottenere una specie di marmorizzazione abitata da un rapporto dialettico con la figura. Come la pellicola consunta, segnata da graffi, decadimenti e mirabili imperfezioni. Ecco, lontano delle imperanti mitologie dell’alta definizione, dai proclami del tutto a fuoco, del nitido, del ben definito, in questa lattea catalessi del cinema vivo, alcune tensioni della materia, la sua esplosione in onde e in astratti puntinii luminosi. Nulla a che fare con la storia “chiara” che il film sta tentando di raccontarmi.

Un percorso di messa a giorno che è anche di messa a distanza e mi riporta, in uno scavo archeologico, ad altri schermi bianchi. In un torrione della Rocca Sanvitale, a pochi passi da un episodio della metamorfosi di Ovidio, sosto qualche minuto davanti a un lindo tappetino posato su un tavolaccio di legno. Sono al buio e osservo per la prima volta le immagini della camera oscura di Fontanellato. Attraverso un foro praticato nel torrione della rocca, alla sommità di una tramoggia lignea ancorata alle feritoie del bastione, gli scenari di Piazza Matteotti e delle vie Luigi e Jacopo Sanvitale si proiettano davanti ai miei occhi. Sogno o son desto? Intravedo un gruppo di ragazzi rincorrersi, un’automobile penetrare l’isola pedonale attorno alla fortezza, le fronde degli alberi muoversi sui prospetti sbrecciati di un portico… Nessun dispositivo moderno origina queste visioni. Strano che qualcosa si muova in questo buio silenzio: oggi non mi abbandona l’idea che quelle immagini fossero solo un inganno ipertecnologico. Oppure mi fossi addormentato, ancora una volta, fra i lattiginosi spiragli luminosi della Rocca di Fontanellato.